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Ue, da domani in carica Costa e von der Leyen bis: pronti al ritorno di Trump

(Adnkronos) – Le istituzioni Ue hanno completato, sei mesi dopo le elezioni, il ciclo di rinnovo dei vertici e sono pronte ad affrontare il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. La Commissione von der Leyen bis entrerà in carica domani, 1 dicembre, in contemporanea con il nuovo presidente del Consiglio Europeo, il portoghese Antonio Costa, che succede al belga Charles Michel.  Il nuovo esecutivo guidato da Ursula von der Leyen vede una prima linea formata da sei vicepresidenti esecutivi: la spagnola Teresa Ribera (Socialisti), il francese Stéphane Séjourné (Renew), l’italiano Raffaele Fitto (Ecr), la finlandese Henna Virkkunen (Ppe), la rumena Roxana Minzatu (Socialisti) e l’Alta Rappresentante Kaja Kallas, estone (Renew). Commissari molto ‘pesanti’ saranno due veterani della Commissione, il lettone Valdis Dombrovskis (Economia) e lo slovacco Maros Sefcovic (Commercio). L’ingresso di un esponente dei Conservatori nella ‘prima fila’ della nuova Commissione ha reso il processo di nomina molto travagliato, perché ha fatto esplodere le tensioni latenti nella ‘maggioranza Ursula’ da quando il voto popolare nelle elezioni europee ha penalizzato i Liberali e i Verdi, assottigliando entrambi i gruppi. Gli ecologisti, anche se non hanno mai fatto parte formalmente della maggioranza, da quando von der Leyen ha lanciato il Green Deal sono entrati in quell’orbita, tanto che la presidente ha detto espressamente, qualche giorno fa, di considerarli parte integrante della sua maggioranza.  Gli equilibri politici sono cambiati: oggi è impossibile la formazione di una maggioranza nell’Aula senza il Ppe, cosa che era invece possibile nella scorsa legislatura, se le sinistre si alleavano con i Liberali di Renew. Per contro, se il Ppe vota insieme ai tre gruppi alla sua destra (nell’ordine Ecr, Patrioti ed Europa delle Nazioni Sovrane), forma una maggioranza di centrodestra. Questo nuovo equilibrio politico ha reso impossibile bocciare qualche candidato commissario, cosa che tradizionalmente il Parlamento fa, anche per ribadire il proprio potere, essendo l’unica istituzione Ue eletta direttamente dal popolo. La situazione è cambiata a tal punto che i Conservatori dell’Ecr, il gruppo più ‘a sinistra’ tra le tre destre, sono stati determinanti per confermare, con la maggioranza dei due terzi, i candidati di tutti i Paesi e di tutti i partiti, certificando il loro nuovo ruolo nell’orbita di quella che Manfred Weber ha definito “la mia maggioranza”. Questa situazione nuova ha generato molta frustrazione nei gruppi a sinistra del Ppe, specie tra i Socialisti, costretti a venire a patti con un gruppo, l’Ecr, che nella scorsa legislatura era riuscito a fatica a spezzare il ‘cordone sanitario’ che gli impediva di accedere alle presidenze di commissione solo grazie a Johan Van Overtveldt, fiammingo dell’N-Va. Tutto questo malcontento è esploso quando, dopo che i Socialisti erano stati morbidi in audizione con Raffaele Fitto, i Popolari si sono scatenati, la sera stessa, contro la candidata socialista spagnola Teresa Ribera, essenzialmente per volontà del Partido Popular, cui il presidente Manfred Weber non può dire di no, se vuole essere rieletto presidente la prossima primavera. A quel punto i Socialisti, dove gli spagnoli conservano la presidenza del gruppo pur essendo la seconda delegazione dopo il Pd, hanno reagito e la conferma dei sei vicepresidenti, e del commissario ungherese Oliver Varhelyi, è stata messa in pausa. Dopo qualche giorno, Popolari e Socialisti sono riusciti faticosamente a trovare un’intesa, ma solo allegando speculari dichiarazioni scritte, dal dubbio valore giuridico, ai pareri di conferma di Fitto e Ribera. Il voto di mercoledì scorso a Strasburgo è stato il frutto di queste tensioni. La maggioranza Ursula è diventata un groviera e il nuovo collegio si insedia con il minimo storico di consensi raccolti nel Parlamento Europeo, solo 370 voti a favore a fronte dei 401 raccolti da Ursula von der Leyen nello scorso luglio, a scrutinio segreto. C’è chi ritiene che il voto palese di mercoledì, con un bottino di consensi per il collegio inferiore a quello raccolto tre mesi fa dalla presidente a scrutinio segreto (una cosa mai vista prima), in realtà avvantaggi la presidente, perché potrà sempre sostenere di avere raccolto un consenso superiore a quello incassato dai suoi commissari.  Nessuno può dire con certezza ora se sarà effettivamente così, ma tutti a Bruxelles sanno che il calo dei consensi è dovuto all’apertura all’Ecr, voluta da Manfred Weber e accettata da von der Leyen, che in questa partita si è mantenuta silente, malgrado i ripetuti appelli affinché parlasse. Se avesse spiegato, come le è stato ripetutamente chiesto dai Liberali e anche dai Socialisti, di aver nominato Fitto vicepresidente esecutivo non in quanto rappresentante dell’Ecr ma in quanto espressione di un grande Paese fondatore come l’Italia, in pochi nell’S&D avrebbero avuto qualcosa da obiettare.  Ma von der Leyen non lo ha fatto e in Aula il suo collegio ha preso ben pochi voti, appena nove in più della maggioranza assoluta, un dato che tecnicamente non vuol dire nulla, perché al collegio bastava la maggioranza relativa, cioè un voto favorevole in più di quelli contrari espressi, per essere eletto. Politicamente, però, vuol dire molto, perché significa che la base di consensi in Parlamento su cui può contare la Commissione per far passare le sue proposte legislative si assottiglia di parecchio. Tuttavia, nel Parlamento Europeo le maggioranze spesso variano a seconda dei dossier e in questa legislatura, viste le premesse, è probabile che saranno variabili. Il capodelegazione di Fratelli d’Italia Carlo Fidanza ha promesso che l’Ecr lavorerà per tutta la legislatura con l’obiettivo far pendere la bilancia verso destra sui singoli provvedimenti, specie sul Green Deal: “Che numeri avrà qui dentro la Commissione? – ha detto – su questo giocheremo la nostra partita su ogni singolo dossier, perché sappiamo che i numeri qui dentro sono cambiati”. In questo quadro, la Commissione von der Leyen bis sulla carta nasce debole. Il discorso fatto dalla presidente in Aula è stato avaro di annunci di sostanza: sulla difesa comune, un tema di importanza sempre crescente alla luce degli sviluppi geopolitici in corso alle porte di casa, con i soldati nordcoreani pronti a sparare sugli ucraini in territorio russo, la presidente si è limitata ad annunciare un “Libro Bianco” sulla difesa. Un annuncio che difficilmente preoccuperà Vladimir Putin. Ha promesso che questa sarà la Commissione “degli investimenti”, senza dire una parola su come verranno finanziati. Con le elezioni alle porte in Germania, è difficile comunque aspettarsi che la presidente, sempre molto attenta agli equilibri politici nel suo Paese, si sbilanci troppo su temi delicati.  Se nel Parlamento Europeo il quadro è sempre più frammentato, le cose non vanno molto meglio nel Consiglio Ue, l’altro colegislatore dell’Unione, e nel Consiglio Europeo, il consesso dei capi di Stato e di governo che dà l’indirizzo politico dell’Unione tramite le sue conclusioni. Tra i grandi Paesi dell’Ue, la Germania andrà a elezioni in febbraio, archiviando il governo ‘semaforo’ di Olaf Scholz, si vedrà con quali esiti (per ora è favorita la Cdu/Csu di Friedrich Merz). In Francia il governo guidato dal Républicain Michel Barnier è appeso alla volontà del Rassemblement National di Jordan Bardella e Marine Le Pen. In Spagna il governo di Pedro Sanchez, che è riuscito a vincere le elezioni con un’audace manovra di anticipo del voto e lasciando i Popolari privi di una maggioranza, naviga a vista. Tra i grandi Paesi, solo l’Italia, con Giorgia Meloni, e la Polonia, con Donald Tusk, hanno governi relativamente stabili. L’Olanda ha un governo guidato da un civil servant, Dick Schoof, il cui azionista di maggioranza è Geert Wilders del Pvv, un populista visto come il fumo negli occhi nei circoli del potere di Bruxelles. In questo quadro, dopo i due mandati del belga Charles Michel, che aveva un pessimo rapporto con Ursula von der Leyen e non faceva nulla per nasconderlo, i 27 hanno scelto come presidente il portoghese Antonio Costa. E’ un socialista pragmatico, che quando era premier del Portogallo è riuscito a sconfiggere i falchi che volevano imporre ulteriore austerità al suo Paese, ‘salvato’ dalla Troika, migliorando gradualmente le condizioni di vita dei cittadini e riportando in equilibrio i conti pubblici.  Viene da un Paese relativamente piccolo, che ha però alle spalle una lunghissima storia, con l’impero coloniale più longevo d’Europa, quasi 600 anni: il primo avamposto commerciale fu Ceuta, sulla costa marocchina, all’inizio del XV secolo; Angola e Mozambico hanno conquistato l’indipendenza solo a metà degli anni Settanta, al termine di guerre sanguinose contro le truppe mandate da Antonio Salazar. Lo stesso Costa è figlio di quella tradizione imperiale: suo padre era nato in Mozambico, da genitori di Goa, antica colonia portoghese sulla costa occidentale dell’India. Il Portogallo è un bacino tradizionale per le nomine politiche di caratura internazionale: il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, nel cui governo Costa iniziò la sua carriera come sottosegretario, è un portoghese, così come lo era José Durao Barroso, per due volte presidente della Commissione.  Costa, primo politico del Sud Europa ad arrivare alla guida del Consiglio Europeo dopo due belgi inframmezzati da un polacco, è un politico di razza: è stato sindaco di Lisbona, ministro e premier del suo Paese. E’ un socialista pragmatico, concreto al punto di organizzare, in un episodio rimasto famoso in Portogallo, una gara tra una Ferrari e un asino per dimostrare che un’arteria suburbana aveva un problema di congestionamento da traffico (vinse l’asino). Non teme né schiva il contatto con il popolo, a differenza di non pochi dirigenti della sinistra, tanto che è facile incrociarlo a pranzo nella mensa dei dipendenti del palazzo Justus Lipsius, che è quella più basilare (ce n’è un’altra più costosa nei sotterranei dell’Europa Building). Malgrado sia relativamente poco conosciuto al grande pubblico europeo, non è un peso piuma, come spesso capita quando si tratta di cariche di vertice dell’Ue, perché i capi di Stato e di governo non gradiscono avere sopra di sé a Bruxelles personalità in grado di fare loro ombra. E’ capace di mediare e di trovare compromessi, tanto da essere andato a trovare, poco dopo la nomina, Giorgia Meloni, che gli aveva votato contro in Consiglio Europeo per protesta contro un accordo sulle nomine che aveva bypassato i leader esterni alla maggioranza.  E’ certo, o quasi, che con Costa non si ripeteranno le scene che, negli ultimi cinque anni, hanno evidenziato agli occhi del mondo intero le divisioni che attraversano le istituzioni dell’Ue, oltre che i suoi Stati membri. Primo fra tutte l’ormai celebre Sofagate, quando Charles Michel scattò fulmineo per prendere posto sulla poltrona a fianco di Recep Tayyip Erdogan, lasciando Ursula von der Leyen ad accomodarsi su un divano, in disparte. In un’intervista al Corriere della Sera e ad alcuni quotidiani europei, Costa assicura oggi di avere una “eccellente relazione personale e politica” con von der Leyen. “Non vedo alcun motivo perché cambi”, dice. Ma poco più avanti ricorda che la sua “missione” è, tra l’altro, “garantire la rappresentanza dell’Unione in materia di politica estera e di sicurezza”. E aggiunge, in un passaggio chiave, che “il trattato è molto chiaro sulle competenze” e che quindi “dobbiamo coordinarci”.  Non è un mistero che, in questi cinque anni, l’attivismo di Ursula von der Leyen in politica estera non ha incontrato il gradimento di tutti, nelle capitali, in particolare quando si è recata, poco dopo le stragi del 7 ottobre 2023, in Israele, prima che gli Stati membri concordassero una posizione comune. La competenza sulla politica estera dell’Ue è del Consiglio, non della Commissione: l’Alto Rappresentante è vicepresidente della Commissione ma presiede in via permanente il Consiglio Affari Esteri. Non sono mancati, in questi cinque anni, disaccordi con Josep Borrell, Alto Rappresentante, specie sulla situazione in Medio Oriente. Borrell era stato ministro e presidente del Parlamento Europeo, mai premier. Sia Kaja Kallas, la nuova Alta Rappresentante, sia Antonio Costa sono ex primi ministri, carica cui von der Leyen, che è stata più volte ministra in Germania, non è mai arrivata. Solo il tempo potrà dire se con Costa Washington avrà finalmente trovato il numero di telefono da chiamare per parlare con l’Ue.  —internazionale/esteriwebinfo@adnkronos.com (Web Info)

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