La recente affermazione del ministro della Giustizia italiano Carlo Nordio secondo il quale “anche se oggi l’uomo accetta e deve accettare l’assoluta parità nei confronti della donna, nel suo subconscio il suo codice genetico trova sempre una certa resistenza” non trova sostegno scientifico e ignora la complessità della biologia umana e le misurazioni globali della parità stessa.
Il concetto di parità di genere, infatti, rappresenta un obiettivo sociale, economico e politico, misurato attraverso indicatori che dimostrano come il progresso verso l’uguaglianza sia non solo possibile, ma effettivamente in atto in molte economie, smentendo l’idea di un veto biologico che ne impedirebbe la riuscita.
Alle parole del ministro hanno fatto seguito diverse polemiche, perché – a pochi giorni dalla Giornata internazionale contro la violenza di genere – è parso che si volesse giustificare con il Dna questo fenomeno. Ma vediamo cosa dice davvero la scienza.
Cosa dice la scienza sulla parità di genere
La ricerca neurobiologica ha confermato, nel corso dei secoli, l’esistenza di differenze tra uomo e donna che influenzano l’espressione genica, la neuroanatomia e la cognizione, determinate da cromosomi (XX e XY), geni specifici e ormoni. Tuttavia, la scienza stessa stabilisce limiti molto chiari alla possibilità di trarre conclusioni deterministiche sul comportamento e sul potenziale umano.
Distinguere con esattezza gli effetti della biologia da quelli delle influenze sociali e della cultura è un compito estremamente complesso e una fonte di dibattiti in corso nel campo della neuroscienza. Ad esempio, sebbene le donne tendano a eccellere in compiti verbali e di memoria e gli uomini in abilità spaziali, l’entità di queste differenze è generalmente piccola e la sovrapposizione tra le distribuzioni dei risultati tra maschi e femmine è più sostanziale delle disparità tra loro.
Ciò è dovuto al fatto che il cervello umano è caratterizzato da neuroplasticità. Studi indicano che le differenze sessuali nelle prestazioni cognitive sono altamente influenzate dalla pratica e dal contesto educativo e culturale. Inoltre, l’accuratezza di qualsiasi modello di differenziazione sessuale deve includere l’impatto dell’ambiente sulla biologia sessuale. L’esperienza stessa modifica il cervello.
A confermarlo è una ricerca svedese dal titolo “Esplorare le differenze di genere: approfondimenti sull’espressione genica, neuroanatomia, neurochimica, cognizione e patologia”, pubblicata lo scorso anno sulla rivista scientifica Frontiers, la quale ha spiegato che il tema delle differenze di genere nelle capacità cognitive continua a suscitare interesse non solo tra gli scienziati sociali, ma anche tra il grande pubblico e i media. Se le differenze morfologiche possono aiutare a spiegare quelle comportamentali tra i sessi, collegare direttamente le prestazioni cognitive a fattori biologici “è eccessivamente semplicistico a causa della sua complessa suscettibilità a diverse variabili, tra cui influenze sociali, cultura, genere, autopercezione e ormoni, tutte in grado di influenzare significativamente i risultati”, scrivono i ricercatori.
“Le prove – si legge nella ricerca – dimostrano che le differenze di genere nelle prestazioni cognitive tra le popolazioni in tutta Europa varia sistematicamente a seconda delle attività cognitive, delle coorti di nascita e delle regioni. Inoltre – aggiungono i ricercatori – (le prove) evidenziano una correlazione tra le prestazioni cognitive e le condizioni di vita, nonché le opportunità educative a cui gli individui sono stati esposti durante i loro anni formativi”.
In sintesi, la scienza biologica esplora il perché siamo diversi, ma non stabilisce che non possiamo essere uguali nel trattamento o nelle opportunità.
Sfatare il “codice Alfa”: il mito del dominio maschile in natura
La scienza ha smentito anche l’idea che il codice genetico imponga una dominanza rigida, spesso giustificata dal concetto di “maschio alfa”. Una vasta analisi sulle dinamiche di dominanza tra 121 specie di primati ha rivelato che solo nel 17% dei casi si osserva una chiara sottomissione femminile. Il dato cruciale è che nel 70% delle popolazioni studiate, né i maschi né le femmine mostrano una dominanza sistematica, confutando l’idea di gerarchie fisse basate sul sesso. La leadership, quando presente, si basa sul “prestigio” (mediazione e cooperazione) e non sulla sola “dominanza” (intimidazione e aggressività).
Il mito stesso, originato da studi sui lupi in cattività, è stato sconfessato: in natura, il presunto “maschio alfa” è semplicemente il padre di famiglia. Pertanto, l’argomento che associa il patriarcato umano a una presunta “eredità dei primati” risulta fuorviante.
La parità di genere è un esito sociale misurabile
Se non possiamo giustificare la disparità e la violenza con la biologia, possiamo senz’altro misurare la parità di genere con una serie di indicatori. A farlo ogni anno è il Global Gender Gap Index del World Economic Forum (Wef), un rapporto che analizza i progressi in 148 economie in quattro dimensioni chiave, nessuna delle quali è fissata da un “codice genetico”:
• Partecipazione economica e opportunità;
• Successo educativo.
• Salute e sopravvivenza.
• Responsabilizzazione politica.
Le misurazioni del Wef smentiscono l’idea di un’immutabile accettazione o non accettazione biologica della parità, poiché documentano un progresso dinamico, influenzato da scelte politiche e sociali:
1. Nel corso degli ultimi 19 anni (dal 2006 al 2025), i livelli globali di parità sono aumentati, in particolare nelle dimensioni della Partecipazione economica e della Responsabilizzazione politica, che hanno mostrato il maggiore dinamismo e i guadagni più elevati nel tempo.
2. Economie come il Bangladesh (+8,6 punti percentuali) e il Regno Unito (+4,9 punti percentuali) hanno registrato miglioramenti notevoli nei loro punteggi di parità tra il 2024 e il 2025. La Repubblica di Moldova, entrata nella top 10 per la prima volta nel 2025, ha aumentato il suo punteggio di parità politica di ben +7,5 punti dall’edizione precedente, grazie all’incremento di donne in posizioni ministeriali e alla presenza di un capo di stato donna. Questi miglioramenti dimostrano che la parità è un risultato raggiunto attraverso politiche e cambiamenti sociali, e non un’impossibilità genetica.
3. La parità di genere è strettamente correlata ai quadri legali in vigore, come analizzato dal Wef in collaborazione con la Banca Mondiale. Il Report mostra una correlazione tra il punteggio legale e il punteggio di parità di genere, indicando che le strutture giuridiche e sociali sono fondamentali per raggiungere l’uguaglianza, non il Dna.
4. Il mancato raggiungimento della parità di genere impone un “costo nascosto ma elevato sulla crescita globale”. Le economie che sfruttano appieno il loro talento e capitale umano sono meglio posizionate per accelerare la produttività e la prosperità. Le lacune di genere si manifestano in talento sottoutilizzato, perdita di produttività, innovazione rallentata e coesione sociale indebolita.
La violenza come fenomeno culturale
Analisi e risultati scientifici dimostrano che, anche se le differenze biologiche sessuali esistano, esse non costituiscono una giustificazione per la violenza di genere. Al contrario, indicano che la violenza è un rischio potenziale che deve essere mitigato attraverso l’interazione complessa con l’ambiente, la cultura, l’educazione e la legge.
L’affermazione che il codice genetico ostacoli la parità di genere confonde il sesso (la biologia) con il genere (il costrutto sociale, politico ed economico). La neuroplasticità del cervello umano dimostra il legame tra biologia e cultura e la capacità di adattabilità del cervello stesso. Soprattutto, le metriche globali dimostrano chiaramente che la parità di genere è un obiettivo dinamico, che viene attivamente raggiunto o negato attraverso azioni umane, legislative e sociali, non da un immodificabile dettato genetico.
La parità di genere, in termini di opportunità e rappresentanza, non è un’utopia negata dal Dna, ma una questione di volontà politica e di investimenti sociali.
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