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Un italiano su due non paga l’Irpef: perché il peso del fisco ricade sul ceto medio?

Su 59 milioni di abitanti, solo 33,5 milioni versano l’imposta sui redditi delle persone fisiche. Il 43% della popolazione italiana (circa 25,4 milioni di persone) non dichiara alcun reddito, mentre il 27% dei contribuenti sostiene da solo quasi l’80% del gettito. Emerge così una fotografia del sistema tributario italiano che solleva profondi dubbi sull’equità fiscale e sulla sostenibilità di un modello in cui il carico dell’Irpef si concentra su una fascia ristretta di lavoratori e professionisti.

I dati della dodicesima indagine dell’Osservatorio sulle dichiarazioni dei redditi ai fini Irpef (Imposta sui redditi delle persone fisiche), realizzata dal Centro studi e ricerche di Itinerari Previdenziali in collaborazione con Cida, descrivono un Paese diviso tra chi finanzia il welfare e chi ne beneficia senza contribuire. Alberto Brambilla, presidente del Centro studi, si chiede se questa distribuzione sia davvero credibile: “È davvero possibile che quasi la metà degli italiani dichiara di vivere con circa 10mila euro lordi all’anno?”.

Chi non paga l’Irpef 

Il 43,15% degli italiani non ha alcun reddito dichiarato e vive, di conseguenza, a carico di qualcuno. Si tratta di circa 25 milioni di persone che non compaiono tra i contribuenti Irpef.

A questi si aggiungono 1.184.272 soggetti che denunciano un reddito nullo o negativo, in aumento di oltre 170mila unità rispetto all’anno precedente. Non pagano quindi né tasse né contributi, pur presentando dichiarazione dei redditi.

In pratica, dei 42,6 milioni di italiani che presentano dichiarazione, solo 33,5 milioni versano effettivamente qualcosa allo Stato, pari al 57% della popolazione totale. Gli altri 9 milioni di dichiaranti non pagano Irpef per diverse ragioni.
La prima riguarda la no tax area, la soglia reddituale sotto la quale l’imposta risulta azzerata dalle detrazioni previste. Il tetto è di 8.500 euro per lavoratori dipendenti e pensionati e di 5.500 euro per gli autonomi. In pratica, chi guadagna fino a queste cifre non versa alcuna imposta perché le detrazioni fiscali spettanti sono pari o superiori all’imposta lorda calcolata.

Oltre 7,2 milioni di contribuenti dichiarano redditi tra zero e 7.500 euro, e di questi solo 2,1 milioni versano effettivamente l’Irpef. La fascia tra 7.500 e 15.000 euro conta circa 8 milioni di dichiaranti, molti dei quali beneficiano del trattamento integrativo, l’ex bonus Renzi reso strutturale per compensare, seppure in maniera molto parziale, i salari troppo bassi.

Per chi guadagna fino a 15.000 euro, il bonus è pieno e viene dato per intero (100 euro al mese). Per i redditi tra 15.000 e 28.000 euro, invece, il bonus si calcola come la differenza tra le detrazioni fiscali spettanti e l’imposta lorda dovuta: se le detrazioni sono maggiori delle tasse da pagare, il lavoratore riceve un bonus pari a questa differenza fino a un massimo di 1.200 euro.

In sostanza, questo meccanismo permette a molti lavoratori con redditi medio-bassi di avere l’Irpef completamente compensata dal bonus, quindi di non pagare tasse o pagarne molto meno.

Perché il 43% degli italiani non dichiara redditi?

La risposta non può essere univoca, né esiste una motivazione certa per ciascuno degli oltre 25 milioni di contribuenti non dichiaranti. Riecheggiando lo scetticismo di Brambilla (È possibile che metà degli italiani viva con meno di 10mila euro all’anno?”) Antonio Russo, portavoce di Alleanza contro la povertà in Italia, ritiene impensabile che “la metà degli italiani effettivamente non percepisca reddito” e parla esplicitamente di evasione fiscale come causa principale di questo dato. Secondo la sua interpretazione, molti di questi soggetti “si nascondono dietro dichiarazioni false” e “si sottraggono ai propri obblighi fiscali”.

Sicuramente le categorie che, per motivi molto diversi, non dichiarano redditi sono:

  • Studenti universitari non lavoratori;
  • Casalinghe/casalinghi senza reddito proprio;
  • Disoccupati che non percepiscono sussidi;
  • Persone con redditi da economia sommersa.

Una distribuzione squilibrata

Dati alla mano, il peso dell’imposta si concentra su poco più di un quarto dei contribuenti. Circa 11,6 milioni di persone, il 27,41% dei dichiaranti con redditi superiori a 29mila euro, versano da sole il 76,87% dell’intera Irpef. I restanti 31 milioni di contribuenti ne pagano solo il 23,13%, pur rappresentando il 72,59% dei dichiaranti.

Nella fascia tra 15.000 e 20.000 euro si trovano circa 5 milioni di contribuenti che pagano un’imposta media annua di 1.817 euro. Tra 20.001 e 29.000 euro si collocano 9,7 milioni di dichiaranti con un’imposta media di 3.750 euro. Sopra questa soglia, però, l’aliquota marginale sale dal 23% al 35%, determinando un salto significativo del carico fiscale.

Stefano Cuzzilla, presidente di Cida (Confederazione italiana dirigenti e alte professionalità), definisce questa situazione “una trappola per il ceto medio”, un meccanismo che concentra il peso fiscale su una minoranza e lascia il resto del Paese sulle spalle di pochi. Il sistema Irpef rischia di disincentivare la crescita professionale e la mobilità verso l’alto, alimentando la percezione di un declassamento socioeconomico.

“Il problema che emerge dalla ricerca – ha aggiunto Cuzzilla – è molto chiaro: un terzo degli italiani paga l’80% dell’Irpef. Questa cosa non è sostenibile perché così il ceto medio non riesce più ad andare avanti. Quello che noi diciamo fortemente è che dobbiamo fare una lotta all’evasione fiscale”.

Chi è davvero il ceto medio 

Definire il ceto medio non è solo questione di reddito.

Secondo l’Ocse, rientrano in questa categoria coloro che hanno un reddito tra il 75% e il 200% del reddito mediano nazionale. In Italia, il reddito familiare netto mediano si attesta a 30.039 euro annui, pari a 2.310 euro al mese, secondo il rapporto Istat sulle condizioni di vita e reddito delle famiglie 2023-2024. Questo significa che la classe media comprende le famiglie con reddito compreso tra 22.529 e 60.078 euro.

Il rapporto Cida-Censis intitolato ‘Il valore del ceto medio per l’economia e la società’ evidenzia che il 60,5% degli italiani si sente di appartenere a questa categoria, ma la percezione va oltre il dato economico e riguarda l’identità e lo status sociale. Sentirsi ceto medio è compatibile con disponibilità reddituali che variano dai 15mila ai 50mila euro annui, influenzate da fattori come titolo di studio, condizione professionale, proprietà della casa e stato di salute.

Oggi prevale però la percezione di un declassamento: il 48,8% degli italiani vive il timore di una regressione nella scala sociale e il 74,4% ha la convinzione di un concreto blocco della mobilità verso l’alto. Il reddito pro capite delle famiglie italiane è sceso del 7,7% tra il 2001 e il 2021, mentre la media europea saliva di quasi 10 punti percentuali. Il 66,6% degli italiani è convinto che le generazioni passate vivevano meglio e il 76,1% ritiene che le generazioni future staranno peggio di quelle attuali.

La fascia più colpita dalla pressione fiscale è quella con redditi tra 29.001 e 50.000 euro, sottoposta all’aliquota del 35% dopo aver superato la prima soglia. Circa 8 milioni di lavoratori si trovano in questa condizione, stretti tra chi paga poco o nulla e chi, oltre i 50.000 euro, può comunque contare su margini economici più ampi.

Le ipotesi di riforma 

La manovra 2026 punta a intervenire sulla seconda aliquota Irpef proprio per alleviare la pressione sul ceto medio. La proposta più discussa prevede la riduzione dell’aliquota dal 35% al 33% e l’allargamento della relativa fascia di reddito fino a 60.000 euro. Oltre questa soglia scatterebbe direttamente il terzo e ultimo scaglione con aliquota al 43%.

Secondo le simulazioni elaborate da Unimpresa, un contribuente con reddito lordo di 30.000 euro risparmierebbe 40 euro annui, a 40.000 euro il risparmio salirebbe a 240 euro, a 50.000 euro raggiungerebbe 440 euro e a 60.000 euro toccherebbe i 1.440 euro. Il costo complessivo di questa misura oscillerebbe tra 2,7 e 4 miliardi di euro annui, a seconda dell’estensione della fascia di applicazione.

Il viceministro dell’Economia Maurizio Leo ha confermato che l’esecutivo considera il ceto medio troppo tassato: “Chi guadagna fino a 50mila euro l’anno non può certo considerarsi ricco. Abbassare le tasse al ceto medio è necessario, ma lo si deve fare con risorse da individuare”. Le priorità della Legge di Bilancio 2026 includono la conferma del taglio del cuneo fiscale, che nel 2025 riguarda circa 14 milioni di lavoratori con una riduzione dei contributi previdenziali di 7 punti percentuali per i redditi fino a 25mila euro e di 6 punti per quelli fino a 35mila euro.

Parallelamente, il governo mira a consolidare la riforma delle aliquote Irpef passate da quattro a tre scaglioni, con un costo stimato di circa 4 miliardi di euro. L’obiettivo dichiarato è sostenere le famiglie con figli, anche attraverso il potenziamento dell’assegno unico o l’introduzione di detrazioni specifiche.

Più assumi, meno versi

L’idea alla base di queste ipotesi di riforma è far pagare di meno le imprese che assumono di più, grazie alla super deduzione del costo del lavoro per le assunzioni a tempo indeterminato, pari al 120% e fino al 130% per categorie specifiche come mamme, under 30 ed ex percettori di reddito di cittadinanza.

 

Popolazione

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

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