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Geoeconomia: cos’è e perché è diventata una leva strategica decisiva per l’Ue

Dazi, sussidi, investimenti esteri, controllo delle tecnologie. Il potere passa e passerà sempre di più da qua, un territorio solo in apparenza economico ma in cui si giocano invece le strategie di potere dei nostri tempi. Il mondo infatti si è rapidamente trasformato: ormai innovazione, merci, finanza e politiche militari si mescolano e rendono sempre più sfumate le linee tra commercio e diplomazia, mentre a livello globale è tornata repentinamente alla ribalta la volontà di potenza. Secondo diversi analisti, è insomma iniziata la nuova era della geoeconomia.

Cos’è la geoeconomia

Sebbene a livello generale la parola ‘geoeconomia’ indichi lo studio di come economia e geopolitica si intreccino e come strumenti economici e finanziari vengano utilizzati dagli Stati per le proprie finalità di potere (ma c‘è chi ne sottolinea l’inadeguatezza), nel gergo più mainstream è passata ad indicare l’uso deliberato da parte dei governi di tali strumenti per promuovere interessi geopolitici, di sicurezza e di influenza internazionale. Il punto di partenza è che l’economia è diventata uno strumento di potere. Perciò, quando un Paese limita l’export di una tecnologia chiave, impone sanzioni finanziarie, incentiva il reshoring industriale, condiziona investimenti esteri, sta facendo geoeconomia, anche se la decisione è formalmente “economica”.

La parola non è nuova: fu l’economista e stratega americano Edward Luttwak a introdurla alla fine degli anni ’80 per descrivere il fatto che terminata la Guerra fredda la potenza di un Paese non si poteva più misurare in termini di forza militare quanto soprattutto di capacità e di forza economica. Per Luttwak, quello che stava accadendo era la “mescolanza della logica del conflitto con i metodi del commercio”.

In sostanza, un ‘homo homini lupus’, ma applicato agli Stati: ognuno di essi è in competizione con gli altri, in uno scenario globale che alcuni economisti hanno definito ‘anarchico’.

Infatti, rilevano, la globalizzazione “neutrale”, secondo cui i mercati producono automaticamente cooperazione e stabilità, è quantomeno in crisi, mentre le dipendenze economiche sono ormai sempre più vulnerabilità strategiche. Le grandi potenze competono con leve economiche più che con la forza militare diretta e crisi come pandemia, guerra in Ucraina e transizione energetica hanno mostrato quanto economia e sicurezza siano inseparabili. Un concetto illuminato non a caso dalla nuova Strategia americana, di cui costituisce di fatto l’ossatura.

Geoeconomia come mezzo di potere

Parlare di geoeconomia significa dunque parlare di potere. Nel concreto, tra gli strumenti principali a disposizione dei governi rientrano:

politiche commerciali (dazi, accordi di libero scambio, restrizioni all’export);
sanzioni economiche e finanziarie;
controllo delle risorse strategiche (energia, cibo, terre rare);
politiche industriali e sussidi;
tecnologia e standard (semiconduttori, 5G, AI);
investimenti infrastrutturali (porti, reti energetiche, logistica);
controllo delle catene globali del valore.

Scorrendo la lista, è chiaro che il presidente Usa Donald Trump sta utilizzando molti degli strumenti geoeconomici, primo su tutti i dazi, mentre la Cina a sua volta sta usando come leva le esportazioni di materie prime critiche. D’altronde, rilevano diversi esperti, Pechino adotta da tempo politiche geoeconomiche e mercantiliste. Per il Global Capital Allocation Project, creato da un gruppo di economisti di Stanford e Columbia, il Dragone oggi ha il controllo della manifattura (soprattutto grazie al predominio sulle terre rare), mentre gli Stati Uniti hanno il controllo della finanza (grazie allo status di valuta di riserva del dollaro).

Come sintetizza l’opinionista del Financial Times Gillian Tett, esperta dell’argomento, un modo per dare un senso alle azioni della Casa Bianca – che a molti sembrano irrazionali ma che non lo sono, per quanto caotiche e contradditorie – “è che l’America sta cercando di minare l’egemonia industriale cinese pur proteggendo il proprio dominio finanziario, e viceversa“.

La rivalità tra Usa e Cina porta tutti nel campo geoeconomico

Il vento della storia è girato, continua Tett, e la rivalità tra Stati Uniti e Cina, con il Dragone che si candida a soppiantare i primi, costringerà anche gli altri Paesi a scendere nell’agone geoeconomico, ognuno con le proprie possibilità. In questa cornice si inseriscono ad esempio il progetto dell’euro digitale in Europa w i piani dell’Arabia Saudita per affrancarsi dal petrolio, entrambi ricordati dalla giornalista nei suoi editoriali.

“Il problema della geoeconomia è che è contagiosa: se un Paese la adotta, altri subiscono pressioni per rispondere“, afferma ancora Tett, ricordando che se Trump ha accelerato il processo, questo era già in corso fin dalla crisi finanziaria del 2008 ed è stato poi aggravato da ripetuti ‘shock’: pandemia, guerra in Ucraina, tensioni commerciali e transizione energetica.

Ogni potenza ha il proprio approccio al tema: gli Stati Uniti utilizzano da tempo sanzioni finanziarie, controllo delle tecnologie e politiche industriali aggressive per difendere la propria leadership. La Cina integra economia e politica estera in modo sistemico, usando investimenti, commercio e controllo delle materie prime come strumenti di influenza. La Russia, infine, ha fatto dell’energia una leva geoeconomica centrale, mostrando però anche i limiti di questa strategia dopo il 2022.

L’Unione europea in un mondo anarchico

E l’Unione europea? Per Bruxelles, la geoeconomia è una sfida di primaria importanza: il blocco non è una potenza militare, ma è uno dei più grandi mercati del mondo, per quanto in ridimensionamento. Per questo motivo, l’economia è la sua la principale leva di influenza esterna. L’Ue negli ultimi anni ha man mano riconosciuto che commercio e politica industriale non sono separabili dalla sicurezza, e ha introdotto il concetto di ‘autonomia strategica aperta‘, che punta a ridurre le dipendenze in settori come energia, tecnologia, difesa, salute mantenendo un’economia rivolta al commercio e globale alla cooperazione. Bruxelles ha dalla sua alcune ‘armi’ geoeconomiche:

politica commerciale: accordi di libero scambio selettivi, clausole di sicurezza economica, meccanismi anti-coercizione;
politica industriale: sostegno a settori strategici come semiconduttori, batterie, idrogeno e tecnologie digitali;
controllo degli investimenti esteri: maggiore attenzione agli asset strategici europei;
sanzioni economiche: come strumento di pressione politica, soprattutto dopo l’invasione russa dell’Ucraina;
regolazione tecnologica: standard europei su dati, intelligenza artificiale e concorrenza.

Due ambiti in particolare rendono la geoeconomia rilevante per l’Europa: transizione ecologica e trasformazione digitale. La prima è sì una questione climatica, ma è anche una competizione globale per il controllo delle filiere del futuro (tecnologie verdi, materie prime critiche, infrastrutture energetiche). La seconda riguarda quelli che ormai sono asset strategici, su cui si gioca una parte decisiva della sovranità europea – semiconduttori, cloud, dati e intelligenza artificiale.

Tuttavia, l’Unione non è riuscita a far valere il suo peso economico, e anzi dall’avvento di Trump la sua influenza globale è diminuita, come sottolinea Kazuto Suzuki, direttore dell’Istituto di Geoeconomia. Il blocco infatti è dipendente dagli Usa militarmente e in buona parte energeticamente, dopo l’abbandono del gas di Mosca decisa in seguito all’invasione dell’Ucraina. Stesso discorso per la tecnologia: le aziende a stelle e strisce dominano l’infrastruttura di servizi cloud in Europa, che ha ben pochi sostituti. L’autonomia strategica dell’Europa, insomma, non sembra a portata di mano.

Politics

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

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