“Ho capito sin dall’inizio che questa sarebbe stata una battaglia prima di tutto culturale”, spiega ai microfoni di Demografica Francesca Barra, la giornalista, scrittrice e conduttrice televisiva che due settimane fa ha denunciato la presenza online di foto, debitamente manipolate, che la ritraevano nuda. Il deepnude si è consumato su SocialMediaGirls, piattaforma che conta 7,5 milioni di utenti nel mondo.
Dopo la denuncia social, è arrivata quella legale, depositata alla Polizia postale, che ha avviato gli accertamenti sul caso. Qui c’è il primo nodo della questione: a differenza del precedente sito Phica.eu (che è stato effettivamente chiuso dalla Polizia Postale), SocialMediaGirls è una realtà internazionale molto più complessa da oscurare.
Il vuoto normativo: perché i siti di deepnude restano aperti
Il meccanismo è noto a chiunque, ma le istituzioni non riescono a contrastarlo.
Come tanti altri siti illeciti, SocialMediaGirls utilizza server in Paesi con leggi permissive e li cambia periodicamente. Per questo, spiega Francesca Barra, “serve una legislazione transnazionale, che obblighi almeno i Ventisette Paesi europei ad avere regole comuni sul fenomeno del deepfake e del deepnude. Negli ultimi giorno ho presentato una proposta ad alcuni parlamentari europei che si occupano di questo tema”, ci rivela la giornalista.
La proposta di Francesca Barra agli europarlamentari
L’Italia è stata il primo Paese europeo a introdurre un reato specifico per il deepfake con la legge 132 del 2025, che prevede pene da 1 a 5 anni ed è entrata in vigore il 10 ottobre. Due settimane dopo è arrivata denuncia di Francesca Barra, che sottolinea quanto sia facile per questi siti restare operativi: “Io denuncio, nella migliore delle ipotesi oscureranno quel sito, ma puoi vedere quel sito all’estero. Non tutti i Paesi abbracciano la stessa normativa. Non hanno un progetto comune, non hanno una norma comune”, spiega.
Gli Stati Uniti hanno fatto passi avanti con il Take It Down Act firmato a maggio scorso, che rende il revenge porn e il deepfake reato federale con tre anni di carcere e multe, obbligando le piattaforme a rimuovere i contenuti entro 48 ore dalla richiesta della vittima. Ma anche negli Usa la normativa è federale e discrezionale, lasciando margini di interpretazione.
Secondo Francesca Barra, “C’è bisogno di una task force addestrata a parlare lo stesso linguaggio di questi criminali, che conosca il modo in cui si muovono, che possano andare a prevenire le mosse. Perché chiudono da una parte, ne aprono un altro e questa cosa non riusciremo mai a fermarla se non ci sarà un controllo comune almeno tra i Paesi europei”.
In cosa consiste la tua proposta?
“Ho scritto ad alcuni europarlamentari chiedendo un incontro e una strategia comune che possa allineare gli Stati Ue nella protezione dei soggetti più fragili e nel contrastare questi nuovi reati che purtroppo stanno toccando noi, ma soprattutto i minori, le persone più fragili, più esposte”.
Il lavoro delle istituzioni richiede tempo, ma i numeri dicono che siamo già in ritardo.
Solo nei primi sei mesi del 2025, circa tremila minori in Italia sono stati “spogliati” virtualmente con tecnologia deepnude, mentre il 52,3% dei giovani non è in grado di distinguere un video manipolato da uno autentico. Secondo i dati raccolti dal gruppo informatico Home Security Heroes (2023), l’Italia è il quarto Paese più colpito dal fenomeno del deepfake porn dopo gli Stati Uniti, la Russia e l’Argentina.
Barra: “Denuncio per tutte quelle donne che non possono farlo”
“Quando sono venuta a conoscenza di queste immagini non è stato facile. Ho deciso di denunciare pensando ai miei figli e al loro futuro e a tutte quelle donne che vorrebbero denunciare ma non hanno gli strumenti per farlo. Molte – spiega – rinunciano in partenza, sia perché non credono che la loro denuncia porterà a un risultato concreto sia per paura del giudizio.
Avendo le spalle larghe ho deciso di dare voce a tutte loro. Qualcuno mi accusa di personalizzare la questione, ma a me non interessano le critiche ricevute. A me interessa portare avanti una battaglia che è prima di tutto culturale, perché solo così si possiamo cambiare le cose. La denuncia fa sentire meno le altre vittime meno sole, crea una rete e permette a queste persone di difendersi meglio”.
La vittimizzazione secondaria
Barra ci dà un esempio concreto di come denunciare possa cambiare la vita di altre persone che hanno subito abusi simili: “Dopo la mia denuncia, una mamma mi ha scritto che sua figlia aveva subito lo stesso reato su Telegram, ma aveva deciso di non esporsi, subendo quella che in gergo si chiama vittimizzazione secondaria. Temeva che i coetanei la avrebbero accusata di essere troppo estroversa e di aver in qualche modo indotto il loro comportamento.
La madre di questa ragazza mi ha ringraziato perché, con la mia scelta, ho fatto sentire meno sola sua figlia, che ora sa di poter pontare anche sulla mia testimonianza anche per la sua denuncia.
Forse sarebbe meglio se portassimo avanti questo lavoro tutti insieme, senza disunirci per partito preso, no?”, si chiede retoricamente la giornalista.
Oltre alla legge, che ha i suoi tempi e i suoi limiti spaziali, cosa serve per prevenire questi reati?
“Bisogna prima di tutto sensibilizzare sull’importanza del consenso, combattere l’idea che oggettivizzare e sessualizzare il corpo femminile sia normale, contrastare l’uso di questi strumenti come arma di ricatto, di minaccia e di controllo. Credo – continua Francesca Barra – che l’abuso di potere vada combattuto in ogni campo da chi ha la possibilità di farlo”.
Il sito denunciato è attivo dal 2014: “Non si tratta solo di Francesca Barra, del personaggio pubblico, di Diletta Leotta, di Chiara Ferragni che vengono spogliate con l’intelligenza artificiale. All’interno di quel sito esistevano immagini rubate, immagini usate per vendette, immagini pedopornografiche. Chi si permette di utilizzare dei corpi senza permesso in questo modo, si permette di fare qualsiasi cosa”.
Il rispetto del consenso è collegato alla tragedia sociale dei femminicidi. “Se Filippo Turetta avesse accettato il rifiuto, Giulia Cecchettin non sarebbe morta. Se non capiamo questo attraverso le storie tragiche che dovrebbero diventare un precedente, allora stiamo rendendo anche quel sacrificio inutile”, aggiunge la giornalista. Nei primi nove mesi del 2025, 53 donne sono state uccise in Italia dal partner o dall’ex (dati Viminale).
Deepfake, il ruolo dell’Ai e la responsabilità dell’uomo
Soprattutto quando è a sfondo sessuale, il deepfake genera una duplice confusione.
Da un lato, si tende a spostare il problema sul nudo in sé e non sul fatto che dietro quel nudo (totalmente inventato dall’Ai che sovrappone corpi a volti di altre donne) non ci sia stato alcun consenso da parte della donna, come spiegato dalla stessa Francesca Barra nella sua denuncia sui social. “Non si tratta di spogliarsi o non spogliarsi, o di scegliere come mostrare il proprio corpo, perché questa libertà è un diritto inviolabile. Perché prendere l’immagine di qualcuno, manipolarla e diffonderla senza permesso non è un gioco: è una violenza digitale. Un furto che colpisce il corpo, ma anche la dignità, la privacy, la libertà”.
L’altro errore comune è quello di deresponsabilizzare l’essere umano: “Quando leggo che questi fenomeni avvengono per colpa dell’intelligenza artificiale, ricordo che è sempre l’essere umano a programmare la macchina” precisa Barra.
Un esempio concreto: “Secondo diverse denunce ChatGpt avrebbe suggerito a un ragazzino come suicidarsi. Di tanto in tanto la macchina gli suggeriva di farsi aiutare, ma poi proseguiva e gli dava dei suggerimenti concreti, per esempio ‘copriti il collo, si vedono i segni’. In quel caso la macchina si sarebbe dovuta bloccare”.
Su questo punto, OpenAi ha introdotto una novità importante negli scorsi giorni. Dal 29 ottobre scorso, ChatGpt non può più sostituirsi a medici, avvocati o consulenti finanziari, alla luce delle diverse problematiche avute negli scorsi mesi.
D’altra parte, bisogna entrare nell’ottica che qualsiasi foto può essere manipolata, anche la più banale: “Se tu ti prendi la tua faccia anche in una foto di classe, quella faccia può essere presa e con l’intelligenza artificiale appiccicata da un’altra parte. Di questo cose si muore”, sottolinea.
Francesca Barra: “L’educazione sesso-affettiva ti insegna il rispetto dell’altro, non ti contagia”
Negli ultimi tempi si è parlato tanto di educazione affettiva a scuola, ma i progressi sono stati pochi. Pensi che le istituzioni, italiane ed europee, siano troppo lente rispetto alla realtà?
“Penso che bisognerebbe smettere di fare propaganda e di mettere dentro gli interessi politici in ogni cosa che si propone. I ragazzi hanno bisogno di vivere in ambienti sicuri, hanno bisogno che si parli un po’ più d’amore e invece sono circondati da pessimi esempi, da pessimi maestri in politica, in casa, sui social”.
Save the Children ha rilevato che un ragazzo su quattro apprende la sessualità sui social, percentuale che sale al 45% considerando tutto il web.
Questo spazio dovrebbe essere riempito dalla scuola: “L’educazione sesso-affettiva ti insegna il rispetto dell’altro, non ti contagia con la sessualità altrui. Dobbiamo iniziare a farci venire degli scrupoli su chi siamo e che modelli di riferimento siamo per i nostri ragazzi. Come diceva lo psicoanalista Massimo Recalcati, la scuola dovrebbe essere il luogo dove si insegna sempre e comunque l’amore. Anche se non è un’ora di educazione sesso-affettiva a risolvere tutto, bisogna farlo, perché queste malattie sociali si combattano solo lavorando su più fronti”, spiega Francesca Barra, che ricorda Carolina Picchio, la 14enne che nel 2013 si lanciò dal balcone della sua camera schiacciata dal peso degli insulti ricevuti sui social.
Nel novembre dell’anno precedente, durante una festa tra coetanei a Novara, la studentessa si sentì male dopo aver bevuto troppo alcol e perse conoscenza in bagno. Un gruppo di ragazzi la circondò e simulò atti sessuali sul suo corpo incosciente mentre qualcuno filmava la scena. Il video venne diffuso prima in chat tra i presenti, poi sui social network (Facebook). Carolina fu bersagliata da centinaia di insulti e commenti denigratori sulla sua persona. Molti insulti provenivano da persone che nemmeno conosceva. Gli investigatori scoprirono che nell’ultimo mese prima del suicidio era stata bombardata di insulti sui social network e sul sito Ask.fm.
Il 5 gennaio 2013, Carolina si gettò dal terzo piano della sua abitazione a Novara. Prima di morire scrisse una lettera in cui denunciava l’accaduto e faceva i nomi dei responsabili. Nel messaggio scrisse: “Le parole fanno più male delle botte”.
“Oggi – conclude Barra – molte donne subiscono abusi di questo tipo, amplificati dal rischio del deepfake. Dobbiamo risvegliare le nostre coscienze prima che sia troppo tardi”.
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