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“Non siamo una minaccia”: Marianna Kalonda Okassaka e l’Italia che cambia colore

C’è un’Italia che non compare nei palinsesti, ma esiste ogni giorno nei cortili delle scuole, nei luoghi di lavoro, nei social. È quella delle nuove generazioni di italiani — figli e figlie di famiglie con radici diverse — che stanno riscrivendo cosa significa “appartenere”.

Tra loro c’è Marianna Kalonda Okassaka, italo-congolese, nota online anche come Marianna The Influenza, principale voce e volto di ColorY*, una community nata sui social e diventata un vero ecosistema culturale dedicato alla rappresentazione etnico-razziale e alla lotta contro il razzismo sistemico.

La sua storia comincia con una violenza verbale subita ai tempi delle superiori, la prima volta in cui ha capito di essere percepita come “altro”. All’epoca non aveva gli strumenti per dare un nome a quella ferita. Oggi è diventata una delle principali voci che raccontano l’Italia a colori, spingendo per una riflessione concreta su come il Paese rappresenta se stesso.

Attraverso i social e una rete di migliaia di persone, ColorY* promuove dialogo, formazione e inclusione in scuole, aziende e festival. L’obiettivo è mettere al centro chi spesso è raccontato ai margini: le generazioni che stanno già trasformando il volto dell’Italia.

Le sfide dell’inclusione reale

Secondo Marianna Kalonda Okassaka, ciò che manca davvero perché la nuova Italia sia pienamente riconosciuta è uno spazio di possibilità. “La risposta semplice sarebbe la visibilità. Poi va spiegato meglio, perché ColorY* è nata sui social e ne rispetta ancora le dinamiche”, spiega. “Stiamo cercando di far capire che c’è un’Italia che deve essere scoperta. Quindi più che di visibilità, parlerei di opportunità”.

Opportunità, non solo attenzione mediatica. È la differenza tra una rappresentazione episodica e una partecipazione reale. Nella visione di ColorY*, l’inclusione è un processo continuo: un lavoro collettivo fatto di ascolto, confronto e punti di vista diversi. La community opera su più livelli — dalle campagne digitali alle iniziative nelle scuole, fino ai workshop per le aziende — per spingere istituzioni e media a riconoscere che l’Italia non è più monocromatica.

ColorY* è diventata una piattaforma a rete: “Abbiamo una parte centrale che sarebbe la pagina Instagram, da cui partono tutte le idee e le iniziative”, racconta Marianna. “Poi queste viaggiano su diversi canali, tra cui TikTok, YouTube e la newsletter. Ma abbiamo anche la parte offline: eventi, gruppi di ascolto, workshop. Tutto questo arricchisce un ecosistema a cui contribuiscono più di 1200 persone”.
Un modello che combina attivismo e cultura digitale, capace di generare un racconto collettivo in un Paese dove le parole “diversità” e “appartenenza” restano ancora scomode.

Marianna Kalonda Us
Marianna Kalonda Okassaka, alias Marianna The Influenza

Superare la “diversity di facciata”

Nel mondo aziendale e istituzionale, il linguaggio dell’inclusione è spesso diventato un esercizio di stile. Per Marianna “c’è stato un momento in cui è stata tendenza, e questo poi si vede nel fatto che andando avanti abbiamo assistito a un calo drastico di quelle che erano tutte le azioni per cercare di diversificare i volti”.

Non una condanna, ma una constatazione: la “fase moda” è servita a far emergere il tema, ma non può bastare. “Noi come ColorY* vogliamo dire: superiamo la tendenza e arriviamo alla concretezza”, aggiunge.
Per Marianna, l’inclusione non si misura con un post o con un casting “diverso”, ma con la capacità delle strutture di trasformarsi. “Come per la parità di genere, non è solo una questione di quante persone assumi, ma di creare una cultura accogliente che tenga conto dei bisogni di tutti”.

Il nodo, spiega, è ancora culturale. La diversità continua a essere trattata come eccezione, o come strumento di comunicazione. Ma senza indicatori e responsabilità chiare, l’inclusione resta parola vuota. “Sarebbe importante iniziare ad applicare anche qui gli stessi parametri che si usano per misurare la parità di genere, ma parlando di diversità etnico-razziale”, sottolinea.

La proposta è semplice: spostare il discorso dal piano della sensibilità a quello dell’efficacia, creando un vero ecosistema in cui le differenze diventino parte del funzionamento quotidiano delle organizzazioni.

Ascoltare la Next Gen: la sfida dei media e delle istituzioni

L’Italia sta imparando ad ascoltare le nuove generazioni che la abitano? Marianna non ha dubbi. “L’Italia la dobbiamo sempre distinguere, perché ha tanti cassetti. Io parlo sempre del cassetto social, che ha dato molte più opportunità a persone di raccontarsi e quindi a un pubblico di ascoltare”.

Nei nuovi media, infatti, qualcosa si muove: i social hanno permesso la nascita di nuove voci e modi diversi di raccontarsi. Ma nei contesti più tradizionali il cambiamento è ancora lento. “Forse si fa fatica a parlare di un’Italia che dà spazio, perché dietro ci sono logiche che vanno oltre il nostro lavoro. Spesso non conviene cambiare certe narrazioni”, osserva.

La sfida è far dialogare i due mondi. “Sarebbe bello che i media tradizionali integrassero maggiormente i nuovi media, non soltanto quando sono sensazionalistici, ma per raccontare la quotidianità”, aggiunge Marianna. L’obiettivo non è spettacolarizzare la diversità, ma normalizzarla: mostrare persone con background migratorio in ruoli ordinari, senza doverne fare un caso. È il passaggio necessario perché l’inclusione smetta di essere un tema e diventi una pratica sociale.

Le storie che cambiano le persone

L’impatto del progetto si misura nelle vite di chi incontra ColorY*. “I momenti più belli sono quelli agli eventi, quando arrivano persone — giovani e adulte — che ti ringraziano perché, grazie a ColorY*, hanno finalmente potuto dare un nome a quello che sentivano: sentirsi sempre fuori posto, non appartenere”, racconta Marianna.

Ne ricorda uno in particolare: “Era uno dei primi eventi che abbiamo fatto a Milano. È arrivata una ragazza piangendo, mi ha abbracciato e mi ha ringraziato. Per me, che sono molto empatica, vedere questi risvegli è la prova che stiamo facendo qualcosa di importante”.

Quell’episodio riassume la missione del progetto: aiutare chi cresce in una terza cultura — italiana e insieme altro — a riconoscersi senza vergogna.

Il cambiamento, per Marianna, parte dal linguaggio quotidiano e dalle scelte pratiche. “Già vedere nelle scuole la figura del mediatore culturale o spazi che tengono conto dei codici di abbigliamento modest sarebbe un segnale concreto”, spiega. Non servono grandi proclami, ma un’attenzione costante a chi oggi vive e costruisce il Paese.

“Non siamo tutti uguali, ed è giusto così”

Quando parla di inclusione, Marianna va dritta al punto: “Non è vero che siamo tutti uguali. E il fatto di pensare che lo siamo è uno dei motivi per cui non cambiano le cose”.
Il riconoscimento delle differenze, dice, è la base di una società più equa: “Dobbiamo puntare a una società che riconosce che non siamo tutti uguali e dire: ok, allora dobbiamo sviluppare servizi e bisogni che soddisfino tutte le diversità”.

Per ColorY*, la direzione è chiara: “Noi agiamo dove possiamo, bussiamo alle porte delle realtà e diciamo: il futuro è questo, sempre più multiculturale e multietnico. Che dici se lavoriamo insieme per farti trovare pronto?”.

Una rivoluzione che non ha bisogno di slogan, ma di alleanze e pratiche quotidiane. Perché, come dice Marianna, “non siamo una minaccia, stiamo semplicemente creando un’Italia diversa, più bella”.

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Giovani

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

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