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Ragazzo accoltellato a Milano, una violenza “per sentirsi vivi”: l’analisi dell’esperto

È la notte di un sabato milanese, lungo le vie pulsanti di Corso Como e via Rosales. Un ragazzo, 22 anni, studente universitario alla Bocconi, si trova solo di fronte un gruppo di cinque giovanissimi, la maggior parte ancora minorenni. La richiesta è banale, quasi un pretesto: “Hai da cambiare i soldi?”.

Pochi istanti, una banconota da 50 euro strappata dalle mani. Un misero bottino che diventa la miccia di un orrore sproporzionato. Il 22enne li insegue. La reazione del gruppo è una tempesta di brutalità. Calci e pugni, poi il gelo della lama, estratta e affondata due volte: un fendente al fianco, uno al gluteo. Quei colpi, inferti alle spalle, provocheranno la perforazione di un polmone e la lesione del midollo spinale che oggi potrebbero causargli paraplegia e danni permanenti agli apparati urologico, intestinale e sessuale.

La notizia di cronaca che negli ultimi giorni ha lasciato tutti senza parole preoccupa per l’agghiacciante indifferenza degli aggressori, tutti provenienti da Monza, ragazzi di quartieri residenziali e con famiglie senza apparenti problematicità, famiglie “normali”. Eppure, questi ragazzi si sono vantati dell’accaduto sui social media. Uno di loro avrebbe commentato un video della consigliera comunale ed europarlamentare leghista Silvia Sardone, che denunciava l’insicurezza e la microdelinquenza a Milano, riportando come esempio i sei accoltellamenti registrati in città tra il 25 e 26 ottobre: “Il settimo non l’hanno scoperto ancora”, scriveva il ragazzo. Dalle intercettazioni in commissariato, i giovani ridono, scherzano, sperano che la vittima muoia, dimostrano compiacimento per l’accaduto, esprimendo la volontà di rivedere il video dell’aggressione, inventare delle finte scuse con cui dimostrare il proprio pentimento.

“La sproporzione apparente tra movente e violenza non è determinata dal valore economico della rapina ma dalla dimensione simbolica e performativa della violenza – spiega a Demografica Adnkronos, Marcello Ravveduto docente di Digital Public History dell’Università degli studi di Salerno (Unisa), direttore dell’Osservatorio sulla Rappresentazione degli immaginari mafiosi di Unisa e esperto nello studio delle rappresentazioni della violenza sui social e online -. Sempre più spesso gli atti di violenza nei gruppi giovanili devianti sono determinati dalla volontà di acquisire reputazione criminale come capitale sociale da investire nel sistema di relazioni”.

La violenza come “esperienza-limite”

Secondo il docente, l’interazione violenta dell’accaduto segue una logica situazionale propria, “dove il valore dei 50 euro diventa irrilevante mentre ciò che conta è la sfida simbolica alla credibilità e al rispetto, trasformando la violenza in un atto performativo necessario per crescere nella scala gerarchica criminale. Molti atti violenti – ha aggiunto Ravveduto – sono espressivi piuttosto che strumentali, diventando un modo per affermare identità e potere, gestire umiliazioni percepite e produrre un senso di controllo che è ascrivibile non alla condizione sociale di provenienza ma a un sentimento di dominio e possesso”.

Sulla totale assenza di empatia dimostrata dal gruppo di aggressori, emerge una “dimensione performativo-spettacolare della violenza – ci spiega il docente -. Siamo di fronte al nichilismo affettivo della tardo-modernità: in assenza di progetti collettivi, narrazioni stabili e percorsi normativi strutturanti, la violenza diventa una modalità di produzione di intensità emotiva in contesti altrimenti percepiti come vuoti di senso. La normalità della vita suburbana monzese, priva di marginalità economica ma anche di orizzonti simbolici pregnanti, può produrre soggetti alla ricerca di esperienze-limite che confermino la propria esistenza. La violenza non risponde a bisogni materiali ma a deficit simbolici: necessità di sentirsi vivi, di superare la noia esistenziale, di affermare un’identità distintiva in un panorama omologato”.

La dinamica del gruppo come identità

Il gruppo dei cinque ragazzi, descritti come molto amici tra loro, costituisce un “microsistema normativo autonomo che produce e riproduce codici di condotta alternativi. È una subcultura espressiva che si costituisce attraverso la condivisione di pratiche trasgressive e la costruzione di un’identità collettiva fondata sull’opposizione ostentata alle norme sociali dominanti”, ha aggiunto Ravveduto, secondo il quale il cinismo post-moderno “celebra apertamente la violenza come gesto identitario. Il commento su TikTok che rivendica ironicamente il “settimo accoltellamento” è ostentazione, vanto”.

Questi ragazzi non compiono violenza e poi la documentano, ma compiono violenza in quanto documentabile e condivisibile: “La violenza è già pensata come contenuto mediale – ha sottolineato il docente -, come capitale reputazionale nei circuiti dei social media. Il gesto criminale acquista significato principalmente nella sua circolazione simbolica: commentare l’aggressione con tono sprezzante, parlare di video dell’aggressione e proporre di pubblicare una storia sui social non sono appendici all’atto criminale ma costituiscono la sua ragion d’essere”.

E conclude: “Siamo di fronte a una soggettività algoritmizzata che struttura l’esperienza del reale attraverso le metriche dell’engagement: la violenza genera contenuto, il contenuto genera visibilità, la visibilità conferma l’identità”.

Oggi i tre minorenni del gruppo, tutti 17enni, sono stati associati all’Istituto penitenziario minorile di Milano- “Beccaria” mentre i due maggiorenni presso la casa circondariale di Milano San Vittore.

Giovani

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

© Riproduzione riservata

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