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Senza scuola ma non senza regole: chi sono le famiglie dell’homeschooling

Sulle colline abruzzesi, nell’entroterra di Vasto, una famiglia ha deciso di vivere ai margini dell’organizzazione ordinaria della società. Una madre australiana, un padre britannico e tre figli — una bambina di otto anni e due gemelli di sei — hanno scelto un’ex casa colonica per costruire una vita “essenziale”. Niente elettricità di rete, solo un pannello fotovoltaico; acqua presa da un pozzo; coltivazioni, animali da cortile e istruzione gestita in casa. I bambini non frequentano la scuola, ma seguono programmi di studio in casa e ogni anno affrontano una prova di idoneità in un istituto pubblico, come previsto dalla legge sull’istruzione parentale.

La loro storia è diventata di dominio pubblico dopo un’intossicazione da funghi raccolti nel bosco che ha richiesto l’intervento dei soccorsi. L’episodio ha portato alla scoperta delle condizioni di vita della famiglia e all’apertura di un’indagine della Procura per i minorenni dell’Aquila. Nei sopralluoghi, i servizi sociali hanno riscontrato un contesto essenziale ma ordinato: assenza di residenza anagrafica, nessuna utenza registrata, pochi contatti con il territorio. Hanno però sollevato dubbi sulla continuità e sulla qualità del percorso educativo dei bambini, in un ambiente privo di contatti con coetanei e di supporti scolastici strutturati.

I genitori hanno spiegato di seguire personalmente l’istruzione dei figli con un programma calibrato sui loro ritmi, alternando studio, lettura e attività all’aperto. Hanno prodotto documenti relativi alle prove annuali e alle comunicazioni con la scuola di riferimento. Le autorità hanno comunque chiesto chiarimenti: l’istruzione parentale è un diritto, ma deve essere tracciabile e verificabile. Dopo i sopralluoghi, la Procura ha chiesto la sospensione temporanea della responsabilità genitoriale e l’affidamento educativo dei minori, ritenendo possibile un pregiudizio per la loro crescita sociale e affettiva. Il Tribunale non ha ancora deciso.

Il caso ha riportato l’attenzione su un nodo sempre più attuale: fino a che punto lo Stato può — o deve — entrare nelle scelte educative delle famiglie? E quanto è realmente conosciuta la normativa che regola l’homeschooling in Italia, oggi praticato da migliaia di genitori?

“Codici di convivenza civile”: che cosa chiede (minimo) lo Stato

In Italia la libertà educativa è riconosciuta, ma non assoluta. La Costituzione stabilisce un equilibrio preciso: l’articolo 30 affida ai genitori il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli; l’articolo 34 garantisce che l’istruzione inferiore sia obbligatoria e gratuita. Ne deriva un doppio principio: i genitori possono scegliere come educare, ma lo Stato deve assicurarsi che ogni minore riceva un’istruzione effettiva e adeguata.

L’istruzione parentale, o homeschooling, è regolata dal decreto legislativo 62 del 2017 e dalle Linee guida ministeriali. Chi sceglie questa via deve ogni anno presentare una dichiarazione di istruzione parentale al dirigente della scuola del territorio, autocertificando di avere i mezzi tecnici, economici e culturali per garantire l’apprendimento. Inoltre, ogni minore deve sostenere un esame di idoneità annuale, che accerti il raggiungimento degli obiettivi previsti dai programmi nazionali. Se le prove non vengono sostenute o hanno esito negativo, la scuola deve segnalarlo alle autorità competenti.

Queste procedure, sottolinea il Vademecum giuridico-pedagogico dell’associazione LAIF – L’Associazione Istruzione in Famiglia, sono strumenti di equilibrio tra libertà familiare e tutela dei minori. Il sistema, tuttavia, si basa in larga parte sulla collaborazione e sulla fiducia reciproca. I controlli effettivi variano da regione a regione e dipendono spesso dalla disponibilità delle scuole a gestire percorsi personalizzati.

Secondo i dati del Ministero dell’Istruzione, gli studenti in istruzione parentale erano 5.126 nell’anno scolastico 2018/2019. Nel 2020/2021 sono diventati 15.361, triplicati in poco più di due anni, anche a causa dell’esperienza della didattica a distanza durante la pandemia. Le rilevazioni più recenti, raccolte da LAIF nel 2024, mostrano che oltre il 60 per cento degli homeschooler frequenta la scuola primaria, il 10 per cento la secondaria superiore, e circa il 75 per cento risiede nel Nord Italia. Nel 78 per cento dei casi la scelta riguarda tutti i figli del nucleo familiare, e nella grande maggioranza dei casi i genitori hanno un livello d’istruzione medio-alto.

A livello normativo, l’Italia si colloca tra i Paesi che riconoscono formalmente l’homeschooling ma ne subordinano l’esercizio a verifiche periodiche. Il diritto esiste, ma è bilanciato da un dovere di trasparenza. È su questo equilibrio che si regge la convivenza civile: la libertà di educare non può mai coincidere con l’assenza di responsabilità pubblica.

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L’evoluzione di un fenomeno

L’homeschooling in Italia non è più un fenomeno marginale. In poco più di un decennio è passato da scelta di nicchia a realtà riconosciuta, anche se ancora priva di un’infrastruttura istituzionale adeguata. Le famiglie che lo praticano condividono una motivazione comune: il desiderio di assumersi pienamente la responsabilità dell’educazione dei figli, scegliendo tempi, metodi e contenuti personalizzati. Ma dietro questa intenzione si intrecciano ragioni differenti, sociali e culturali.

Secondo i dati raccolti da LAIF e da una ricerca dell’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del CNR (IRPPS), le famiglie homeschooler si dividono in tre grandi gruppi. Il primo, il più consistente, è composto da genitori che cercano un’educazione più flessibile e attenta ai ritmi individuali, spesso delusi da classi sovraffollate o programmi percepiti come troppo standardizzati. Il secondo gruppo è mosso da ragioni pratiche: trasferimenti frequenti, distanze dalle scuole, fragilità sanitarie o difficoltà di integrazione. Il terzo è più ideologico e minoritario, formato da nuclei che rifiutano la scuola pubblica come modello culturale o valoriale.

La pandemia di Covid-19 ha accelerato il processo. La didattica a distanza ha mostrato che l’apprendimento può avvenire anche fuori dall’aula e ha normalizzato l’uso delle tecnologie educative. Molte famiglie che avevano sperimentato la gestione autonoma dello studio durante il lockdown hanno deciso di proseguirla in forma stabile. Tra il 2019 e il 2021 il numero di studenti in istruzione parentale è triplicato, un balzo che non si è più riassorbito.

Il profilo medio di chi sceglie l’homeschooling è piuttosto definito. Le indagini di LAIF indicano che oltre il 70% dei genitori homeschooler possiede un titolo di studio universitario, e nel 55% dei casi uno dei due lavora da remoto. Il reddito familiare medio è superiore alla media nazionale, ma non di molto: si tratta spesso di famiglie monoreddito che riducono il consumo di beni e servizi per investire tempo nell’educazione dei figli. Le donne risultano più coinvolte: in sette casi su dieci sono loro a coordinare le attività didattiche quotidiane.

Dal punto di vista geografico, l’istruzione parentale si concentra soprattutto nel Nord e nel Centro Italia, con una diffusione più marcata in regioni come Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana. Nelle aree rurali del Sud emergono invece motivazioni diverse: distanza dalle scuole, mancanza di servizi educativi o convinzioni religiose. Secondo le stime di INDIRE, circa il 12% delle famiglie homeschooler risiede in zone montane o con difficoltà di accesso alla rete scolastica.

La relazione tra famiglie e istituzioni scolastiche resta disomogenea. Alcune scuole hanno avviato pratiche collaborative, creando sportelli dedicati, incontri periodici e modalità flessibili per gli esami di idoneità. Altre, invece, faticano a gestire le richieste, per mancanza di linee guida operative o timore di responsabilità. LAIF propone da tempo l’istituzione di una banca dati nazionale sugli studenti in istruzione parentale e la definizione di protocolli uniformi per i controlli, in modo da garantire trasparenza e parità di trattamento sul territorio.

Sul piano culturale, l’homeschooling rimette in discussione l’idea di scuola come unico luogo dell’apprendimento. Le famiglie che lo praticano non chiedono di sostituire l’istruzione pubblica, ma di affiancarle un modello complementare, basato su autonomia, interdisciplinarità e relazioni orizzontali.

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Homeschooling in Italia e all’estero

Il modello italiano di istruzione parentale è uno dei più moderati d’Europa. La libertà di scegliere è riconosciuta, ma vincolata a controlli regolari. In altri Paesi, le regole oscillano tra massima autonomia e divieto totale, a seconda della tradizione giuridica e della fiducia che lo Stato ripone nelle famiglie.

Nel Regno Unito, l’homeschooling è consolidato da decenni. I genitori non sono tenuti a iscrivere i figli a scuola, ma devono garantire un’istruzione “adeguata all’età e alle capacità del minore”. I controlli sono affidati ai consigli locali, che possono richiedere prove documentali o visite a domicilio. Nell’anno scolastico 2023/2024, secondo il Department for Education, i bambini registrati come Elective Home Education sono stati oltre 153.000, un dato in aumento costante.

Negli Stati Uniti, dove la libertà educativa ha radici culturali più profonde, l’homeschooling coinvolge circa 3,1 milioni di studenti (dati National Home Education Research Institute, 2021/2022), pari a oltre il 6% della popolazione in età scolare. Le regole cambiano da Stato a Stato: alcuni impongono test annuali e portfolio, altri lasciano piena autonomia ai genitori. In molti casi i percorsi si intrecciano con la didattica online e con reti di famiglie che organizzano corsi collettivi e laboratori condivisi.

La Francia ha scelto la via del controllo. Dal 2021 l’istruzione familiare è ammessa solo previa autorizzazione per motivi specifici, come salute o disabilità. Il numero delle famiglie autorizzate si è dimezzato nel giro di due anni. La Germania, all’opposto, mantiene il divieto pressoché totale: la frequenza scolastica è considerata parte integrante della cittadinanza e della socializzazione democratica.

Nel confronto internazionale, l’Italia si colloca in una posizione intermedia: riconosce la libertà educativa ma chiede prove tangibili del suo esercizio. È un modello che non pretende uniformità, ma nemmeno accetta l’invisibilità. La sua forza, e insieme la sua vulnerabilità, sta nel carattere fiduciario: lo Stato affida ai genitori la libertà di insegnare, ma chiede di rendere conto dei risultati.

Famiglia

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

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