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Eleonora Daniele e il libro verità contro i tabù sulla malattia mentale

(Adnkronos) – “Storie di malati mentali, delle loro famiglie e di un sistema che è rimasto a guardare”. Eleonora Daniele, giornalista e conduttrice Rai, voce e volto di tante campagne solidali, le mette nel libro ‘Ma siamo tutti matti?’, edito da Rizzoli. Dieci storie di cronaca raccolte dall’autrice in oltre vent’anni di racconto della società italiana, più l’undicesima. La sua storia, la storia della sua famiglia, quella del fratello Luigi morto una mattina di febbraio a 44 anni in un istituto sanitario di Padova. “Soffriva di autismo, trattato per anni come un matto, senza capire la differenza sostanziale tra malattia mentale e disabilità mentale grave”, dichiara Daniele in un’intervista all’Adnkronos Salute. Luigi non ce l’ha fatta, ma “è ancora qui con me e insieme stiamo scrivendo queste pagine”, si legge nel capitolo ‘La sua mano sulla mia’, che apre l’opera.  “E’ un libro tosto”, dice Daniele. A cominciare dal titolo che “è una chiara provocazione”. Siamo tutti matti “intanto perché la parola matto viene usata con troppa leggerezza, in maniera assolutamente sbagliata e discriminatoria. Sulla malattia e la disabilità mentale c’è e persiste un’ignoranza di base e diffusa”, riflette l’autrice. E poi siamo tutti matti perché “dopo la legge Basaglia del 1978, in tutti questi anni, il sistema di presa in carico del paziente è stato demandato in toto alle famiglie e questa oggi è diventata un’emergenza sociale”. Nell’Italia del post-Covid, nell’era dei social, dell’uso sempre più frequente in ogni piazza d’Italia di sostanze stupefacenti, il disagio latente si amplifica a dismisura ed esplode, analizza Daniele. “E’ un’emergenza così evidente, ormai, che se non si fa qualcosa con urgenza si rischia veramente di non riuscire più a salvare nemmeno il salvabile”.  E invece “l’idea di salvezza” è la ragione di vita più forte per le famiglie di chi soffre. L’autrice lo spiega quando prova a descrivere la “mancanza costante e continua” che prova per Luigi che non c’è più: “La cosa che mi manca di più è il fatto di non avere avuto il tempo. Perché tu hai un’idea di salvezza, tu familiare vuoi comunque salvare la persona che hai accanto, la vuoi salvare della sofferenza, dal pregiudizio e dallo stigma, dai pensieri cattivi e da tutto il male del mondo, dalle cattiverie delle persone che non capiscono, dall’ignoranza”, incalza Daniele. “La vuoi salvare e invece non ti viene permesso farlo. O perché ti manca il tempo o semplicemente perché ti trovi a combattere contro i mulini a vento”. Nessuno che riesca ad aiutare davvero chi ami, intorno c’è il vuoto e “tu ti senti perso, solo e abbandonato. Ti senti disperato e vivi in maniera disperata, non dormi la notte”. Non ci riesci oppure non puoi, perché “questi malati a volte non ti fanno dormire, a causa della loro malattia passi le notti in bianco. C’è gente che si chiude nelle camere a chiave, per paura o per vergogna. Ma puoi vivere chiuso a chiave per tutta le vita?”, domanda l’autrice.  “Di fatto la Basaglia è stata applicata a metà – denuncia – Dovevano essere inserite nel territorio tutta una serie di strutture di presa in carico e di difesa, per gli stessi malati, per i loro familiari e anche per quelli che non li conoscono, che girano per le strade e devono poterlo fare in tranquillità e in sicurezza. Tutto questo non è successo” e Daniele lo sa perché ne ha sperimentato “i danni emotivi”, i traumi che feriscono i parenti tanto quanto i “danni effettivi” subiti dai malati. “Sono la più giovane di 4 figli”, ricorda. “Due sorelle più grandi, poi Luigi e dopo 6 anni io. Nella mia infanzia ho vissuto la sua adolescenza come una madre, perché mia mamma lavorava e le mie sorelle erano già fuori casa. Da bambina mi sono trovata ad affrontare il momento più difficile di mio fratello, quello in cui non era più bambino e tu non sai più come fare, perché un bimbo più o meno lo gestisci, mentre un ragazzo grande e grosso no”. Dopo un periodo in un ospedale psichiatrico di Padova – un posto che gli occhi di Eleonora bambina guardavano senza capire “cosa c’entrasse Luigi lì, perché dovesse stare in mezzo ai matti”, scrive nel libro – il fratello dell’autrice tornò a casa fino a quando i genitori furono costretti a prendere “la decisione più sofferta”, quella di trasferirlo in un istituto di Treviso. Fu “un taglio vertiginoso” eppure “non c’era più via di scampo né soluzione, gli attacchi aggressivi erano diventati ormai all’ordine del giorno e mio padre non riusciva più a trattenere l’impeto fisico di un ragazzone di vent’anni che aveva troppe crisi, autolesionistiche e non”, continua il testo. “Nemmeno quel luogo c’entrava nulla” con Luigi, però con il passare dei giorni, dei mesi e degli anni “lui pian piano capì che quella era la sua nuova vita e quel posto la sua nuova casa”. Insomma “sembrava tutto filasse liscio, ma avevamo sulla testa una legge tale per cui i disabili ricoverati in Rsa o strutture paraospedaliere dovevano essere ricondotti in residenze appartenenti al nucleo del comune di nascita”. Così Luigi tornò “a Padova in un istituto più grande, con più strutture sanitarie per la cura e la logopedia”. Di nuovo una speranza, invece fu quello “l’inizio della fine”. Il 17 febbraio 2015 Luigi morì.  “In quell’istante provai il dolore più forte della mia vita, urlai senza fermarmi, sprofondata in un burrone dal quale ancora non sono risalita”, mette nero su bianco l’autrice. E a voce lo ripete: “Tutto questo ha avuto chiaramente un impatto pesantissimo su di me e oggi la mia vita è dedicata anche a questo”, a far sì che le cose possano cambiare. “La presa in carico di mio fratello, e oggi lo dico con grande consapevolezza, è stata traumatica – confida Daniele – per lui e per tutta la famiglia, perché già al tempo non c’erano strutture per i disabili mentali” e “negli anni la situazione è persino peggiorata”. Per le persone con disabilità e per quelle con psicosi o che arrivano a commettere atti criminali: “Ci sono madri e padri che si trovano costretti a denunciare i figli e che nonostante tutto ce li hanno in casa. Ci sono situazioni in cui non scattano i codici rossi, donne come Rosa Maria Scorese stalkerizzata dall’assassino della sorella”. Intanto “le Rems sono tutte piene, non ci sono posti e i pazienti psichiatrici sono nelle case”. Mentre gli istituti che dovrebbero occuparsi delle persone con disabilità mentale “magari le ricoverano, ma raramente le recuperano e la differenza è netta”.  “Chiedo ancora una volta: come è stata applicata la legge Basaglia?”, insiste l’autrice. “Servono strutture a cui le famiglie si possano appoggiare, perché oggi le strutture sono pochissime e le famiglie restano abbandonate. Questa è la verità, questo è quello che raccontano tutti i familiari e questo è il dramma al quale voglio dare voce. Perché quando tratto certe storie lo faccio non da giornalista, ma da familiare, in questi problemi mi riconosco. Anche quando si parla di pazienti con malattie mentali gravissime o di assassini, che non c’entrano nulla con i disabili mentali” com’era Luigi, “i problemi assistenziali e le difficoltà di relazionarsi con le istituzioni competenti sono gli stessi e si stanno aggravando”, avverte Daniele. “Questo discorso lo faccio perché vorrei essere costruttiva – precisa – dare il mio contributo a un sistema che però va rivoluzionato e ripensato”. La prima dedica dell’autrice è “ai nostri figli, affinché possano vivere in un mondo più sano”. La seconda è “per Barbara Capovani, la giovane psichiatra che nell’aprile 2023 a Pisa è stata vittima di un femminicidio avvenuto per mano di un paziente psichiatrico. E qui si apre tutta la voragine delle violenze ai medici, dei giovani che certe professioni non le vogliono più nemmeno fare perché vengono aggrediti o comunque sono a rischio, in una situazione di costante pericolo perché chi dovrebbe essere preso in carico cammina per le strade”. Daniele vuole “dare voce a queste persone e alle famiglie dei pazienti, che non hanno voce e che si isolano perché di malattie mentali non si può parlare. Voglio sfregiare questo tabù, gettarlo in pasto ai lupi” e lenire tanto dolore. “Nonostante lo abbia messo sotto la brace, il mio rimane rovente”, confessa. “Mio fratello lo vivo tutti i giorni, è una presenza costante nella mia vita”, assicura la sorella. “Non posso lasciare la sua mano, perché lui mi sta ancora accompagnando”, scrive nel libro. “La sua mano mi stringe e il suo sorriso mi infonde, nonostante tutto, la voglia di lottare”. Ecco perché Luigi “non è morto. Mi sta accompagnando per stravolgere le cose, tenendosi in equilibrio tra cielo e terra. Servono coraggio e determinazione per spaccare un macigno che continua a roteare all’infinito schiacciando vite umane e i loro diritti. Servono nuove idee per ripensare la malattia mentale dentro un sistema di vita efficace che diminuisca sofferenza e faccia filtrare luce ove l’oscurità ci ha inghiottiti. Affinché la morte di ogni nostro familiare abbia un senso e la dignità di essere ricordata, io lotto”. Il primo grazie è quello di Simone Cristicchi che di ‘Ma siamo tutti matti?’ firma la prefazione: “Le storie che ci racconti – scrive il cantautore che ha portato gli ospedali psichiatrici sul palco di Sanremo vincendo il festival nel 2007 con il brano ‘Ti regalerò una rosa’ – serviranno per vincere quel silenzio complice e ridare una dignità a chi è stato travolto, prima dall’uragano del destino e poi dalla cattiveria degli uomini. Saranno storie per debellare il virus più nefasto dei nostri tempi: l’indifferenza. Saranno specchi per guardarsi nell’altro, perché, come diceva qualcuno, ‘da vicino nessuno è normale'”. —cronacawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

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