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Matrimoni gay, gli Stati europei devono riconoscerli anche se contratti all’estero: la sentenza

La Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue) ha emesso oggi una sentenza storica nella causa “C-713/23”, nota come Wojewoda Mazowiecki, stabilendo che uno Stato membro dell’Ue ha l’obbligo di riconoscere un matrimonio tra due cittadini dell’Unione dello stesso sesso, a condizione che tale unione sia stata legalmente contratta in un altro Stato membro in cui essi abbiano esercitato la loro libertà di circolazione e di soggiorno.

La decisione arriva in risposta a un caso sollevato da due cittadini polacchi che si erano sposati legalmente a Berlino nel 2018; uno dei due coniugi possiede anche la cittadinanza tedesca. Desiderando recarsi e soggiornare in Polonia come coppia coniugata, avevano richiesto la trascrizione del loro atto di matrimonio nel registro dello stato civile polacco, un passo necessario per il riconoscimento del loro status coniugale in patria.

Il rifiuto nazionale e la questione della trascrizione

Le autorità polacche avevano rifiutato la trascrizione, argomentando che il diritto polacco non autorizza il matrimonio tra persone dello stesso sesso e che tale riconoscimento avrebbe violato i principi fondamentali sanciti dall’ordinamento giuridico nazionale. La Corte amministrativa suprema polacca, investita della controversia, ha quindi sottoposto la questione alla Corte europea per verificare la compatibilità della normativa nazionale con il diritto dell’Unione.

La Cgue ha chiarito che, sebbene le norme sul matrimonio rientrino nella competenza degli Stati membri, questi devono comunque rispettare il diritto dell’Unione nell’esercizio di tale competenza. I coniugi, in quanto cittadini dell’Unione, godono della libertà di circolare e soggiornare e del diritto di condurre una normale vita familiare.

Violazione della libertà di circolazione e vita familiare

La Corte ha stabilito che il rifiuto di riconoscere il matrimonio legalmente contratto altrove è contrario al diritto dell’Unione. Un simile rifiuto lede non solo la libertà di circolazione e di soggiorno (art. 20 e art. 21, par. 1, Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) ma anche il diritto fondamentale al rispetto della vita privata e familiare (art. 7 della Carta dei diritti fondamentali).

Secondo la Corte, i cittadini che costruiscono una vita familiare in uno Stato membro ospitante devono avere la certezza di poterla proseguire al ritorno nel loro Stato d’origine. Il mancato riconoscimento può provocare seri inconvenienti amministrativi, professionali e privati, costringendo i coniugi a vivere de facto come non coniugati nel loro Paese d’origine.

L’obbligo di riconoscimento non implica la legalizzazione interna

È fondamentale notare che la sentenza offre una precisazione cruciale: l’obbligo per gli Stati membri di riconoscere lo status matrimoniale acquisito legalmente in un altro Stato membro non implica l’introduzione del matrimonio tra persone dello stesso sesso nel diritto interno. La Corte ha infatti sottolineato che tale obbligo non viola l’identità nazionale né minaccia l’ordine pubblico dello Stato membro d’origine.

Gli Stati membri mantengono un margine di discrezionalità nella scelta delle modalità di riconoscimento. Tuttavia, tali modalità non devono rendere il riconoscimento impossibile o eccessivamente difficile, né discriminare le coppie dello stesso sesso.

Poiché in Polonia la trascrizione dell’atto di matrimonio nel registro dello stato civile è l’unico mezzo previsto per il riconoscimento di matrimoni contratti all’estero, la Cgue ha concluso che la Polonia è tenuta ad applicare tale modalità indistintamente ai matrimoni tra persone dello stesso sesso e a quelli tra persone di sesso opposto.

La Cgue ha inoltre citato la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2023 (Przybyszewska e altri c. Polonia), la quale aveva già dichiarato che la Polonia aveva violato il suo obbligo positivo di istituire un quadro giuridico che consentisse la tutela e il riconoscimento delle coppie dello stesso sesso.

Famiglia

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

© Riproduzione riservata

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