La Cina prosegue la sua azione di forza contro Taiwan. Col nome in codice ‘Justice Mission 2025’, lunedì Pechino ha iniziato esercitazioni militari ad ampio spettro nelle acque intorno all’isola, dispiegando unità aeree, navali e missilistiche, e procedendo a manovre di tiro a fuoco vivo e simulazioni di blocco dei principali porti. Una dimostrazione di potenza che alimenta un’escalation in grado di frantumare il fragile equilibrio regionale e che, anche se può sembrare lontana, non lo è affatto. Nella logica del ‘battito d’ali di una farfalla’ capace di scatenare un uragano a migliaia di chilometri, ciò che accade davanti a Taiwan riguarda da vicino anche l’Europa. E l’Unione europea, oggi, non appare attrezzata per affrontare l’eventuale uragano.
Perché Pechino fa pressione sull’isola
Ma da dove nascono le manovre cinesi? Pechino rivendica Taiwan come provincia ribelle da riportare sotto il proprio controllo, in base al principio ‘One China‘. È una “missione storica che dobbiamo portare a termine“, ha affermato oggi il ministro degli Esteri cinese Wang Yi. La frattura risale alla guerra civile cinese: nel 1949, con la vittoria del Partito comunista sul continente, le forze nazionaliste sconfitte si rifugiarono a Taipei, dove istituirono un governo autonomo e democratico. Da allora, Pechino considera l’isola parte integrante del proprio territorio, da riunificare anche con la forza. In quest’ottica, negli ultimi anni il Paese ha più volte esercitato pressione su Taipei con esercitazioni militari e incursioni nelle sue acque e nel suo spazio aereo.
Justice Mission 2025 è però il round più ampio per area e il più vicino all’isola, e serve a lanciare un messaggio molto chiaro a più destinatari: a Taipei, per ribadire che l’annessione resta un obiettivo molto concreto (secondo valutazioni di intelligence occidentali, il Dragone vorrebbe procedere entro il 2027); agli altri attori internazionali, per scoraggiare qualsiasi interferenza, che, afferma in una nota l’Ufficio cinese per gli affari di Taiwan, “finirà sicuramente per sbattere la testa contro le mura di ferro dell’Esercito popolare di liberazione cinese”.
Il fattore Stati Uniti
Le manovre cinesi in effetti seguono di pochi giorni l’annuncio della più grande vendita di armi statunitensi a Taiwan: un pacchetto di 11 miliardi di dollari, con missili a medio raggio e droni, con capacità difensive e offensive. L’ultima grande vendita europea di armi a Taiwan risale invece al 1991, ad opera della Francia. Il presidente Usa Donald Trump ha liquidato le manovre cinesi: “No, non mi preoccupa nulla. Sono 20 anni che svolgono esercitazioni navali in quella zona”.
Ma intanto, in risposta al crescente accerchiamento militare, il presidente taiwanese Lai Ching-te ha annunciato l’accelerazione del sistema di difesa aerea “T-Dome” e l’aumento della spesa militare fino al 5% del Pil entro il 2030.
La vera minaccia per l’Europa: i semiconduttori
In questo quadro, per l’Unione europea, la minaccia principale è essenzialmente economica. E si riassume in una parola: semiconduttori. Taiwan produce infatti circa il 90% dei chip più sofisticati al mondo, fondamentali per smartphone, automobili, elettrodomestici, aeronautica e difesa. Un quasi monopolio che rende l’isola un nodo critico delle catene globali del valore.
Se Pechino annettesse l’isola democratica, metterebbe le mani su una filiera di enorme importanza a livello mondiale, aggiungendola a un altro punto di forza già esistente: il controllo quasi monopolistico su molte materie prime critiche e sui magneti necessari all’industria verde e digitale. Una filiera che Pechino ha già dimostrato di saper usare come leva geopolitica, anche durante la guerra commerciale con gli Stati Uniti, con effetti collaterali importanti anche per l’Europa.
Una crisi a Taiwan avrebbe quindi effetti potenzialmente devastanti per l’Ue: shock alle catene di approvvigionamento, contraccolpi alle già complesse relazioni con Pechino, nuove sanzioni e un impatto sistemico sull’economia globale. Non solo, ma metterebbe (ulteriormente) in evidenza la vulnerabilità europea. Ancora, lo Stretto di Taiwan è una rotta chiave per il commercio marittimo internazionale: ogni anno vi transitano scambi per 2,45 trilioni di dollari, mentre lo spazio aereo sopra l’isola funge da canale tra la Cina e i mercati dell’Asia orientale e sudorientale.
Democrazia e valori
Ma Taiwan è importante per l’Europa per ragioni che vanno oltre la semplice economia. L’isola rappresenta infatti anche un tassello nella costruzione dell’identità globale dell’Ue come attore che pone diritti umani e democrazia liberale al centro della propria azione esterna. Oggi il rapporto tra Bruxelles e Taipei è fatto di convenienza economica e necessità strategica, ma mentre il confronto Usa-Cina diventa sempre più una lotta per la leadership globale, l’Ue rischia di rimanere ai margini e subire le conseguenze.
La risposta europea: cautela
Finora, la risposta dell’Unione si è limitata a inviti alla moderazione. I Ventisette non intrattengono relazioni diplomatiche formali con Taiwan, ma condividono con l’isola valori democratici e forti legami commerciali, culturali e tecnologici. Il blocco si oppone ufficialmente a qualsiasi uso della forza militare per cambiare lo status quo. Ma, secondo diversi analisti, questa linea equivale a un fallimento sul piano della deterrenza.
Lo scorso novembre a Bruxelles la vicepresidente taiwanese Bi-Khim Hsiao ha chiesto all’Unione di rafforzare la cooperazione commerciale e di sicurezza e di sostenere la democrazia dell’isola. Davanti al Parlamento europeo, Hsiao ha sottolineato come “la pace nello Stretto di Formosa sia essenziale per la stabilità globale” e come “le democrazie, anche quando sono lontane, non siano sole“. La Cina ha protestato.
A inizio dicembre si è poi poi chiuso un caso aperto nel 2022 dall’Unione contro Pechino preso l’Organizzazione mondiale del commercio: Bruxelles ha accusato la controparte di coercizione commerciale contro la Lituania dopo l’apertura di un ufficio di rappresentanza taiwanese a Vilnius. Dopo averlo sospeso più volte per la difficoltà di provare la coercizione, il blocco ha appena ritirato il ricorso, chiudendo il caso senza una decisione formale del Wto, affermando che “gli obiettivi principali alla base della controversia sono stati raggiunti e che il commercio rilevante è ripreso”.
Una decisione che può essere interpretata come un segnale distensivo verso Pechino ma che può anche essere criticata, come da parte americana, come un sintomo di debolezza. Quello che è certo, spiegano gli analisti, è che l’assenza di una politica estera realmente comune, la frammentazione tra 27 linee nazionali e la mancanza di una visione strategica condivisa riducono il peso europeo sulla scena internazionale. Il che significa, anche nel caso di Taiwan, non avere leve per agire e doversi adattare alle decisioni altrui, qualunque sia il prezzo.
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