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Nuova strategia Usa per la sicurezza nazionale: così l’America abbandona l’Europa

Bye bye Bruxelles. Potrebbe riassumersi così, da un punto di vista europeo, la nuova strategia Usa per la sicurezza nazionale (National Security Strategy 2025) firmata dal presidente Donald Trump.
Trentatré pagine destinate a cambiare il corso della storia, così come le decisioni di Washington hanno fatto dal Secondo Dopoguerra in poi. Ma, per citare De André, in direzione “ostinata e contraria” rispetto al recente passato.

La National Security Strategy segna una cesura netta con il secolo scorso, prende di mira l’Europa e strizza l’occhio al Cremlino (che apprezza e ricambia).

Europa, l’alleato declassato

Con la nuova strategia, la Casa Bianca archivia l’idea dell’America come “nazione indispensabile” e ridisegna la mappa delle priorità: l’Europa scivola sul fondo, mentre il resto del continente americano e l’Indo-Pacifico assumono una nuova importanza per i piani di Washington.

La forma e il contenuto sono brutali e diretti, come da tradizione trumpiana è brutale: per l’America, l’Europa è una civiltà in erosione, segnata da migrazioni di massa incontrollate, crollo demografico, restrizioni alla libertà di parola e una burocrazia “sovranazionale” che, sempre secondo il tycoon, mina la sovranità e la democrazia.

Nella sezione dedicata al Vecchio Continente, l’Europa non viene più descritta come un “bastione della democrazia liberale”, ma come un’entità che perde identità e fiducia in sé, fino a diventare “irriconoscibile” nel giro di pochi decenni se le tendenze attuali proseguiranno. L’Unione viene accusata di alimentare, attraverso le proprie politiche migratorie e regolatorie, una trasformazione profonda della composizione demografica e dello spazio pubblico, mentre le leggi su digitale e disinformazione sono dipinte come strumenti di censura che colpirebbero anche la libertà di espressione dei cittadini americani.

In questo quadro, l’alleanza atlantica smette di essere un vincolo identitario e diventa un rapporto condizionato: sostegno sì, ma solo se l’Europa “torna” a una certa idea di Occidente e si assume quasi per intero l’onere della propria difesa entro il 2027.​

Cosa cambia per l’Ue

Il messaggio strategico rivolto agli europei è chiaro, oltre che ridondante: gli Stati Uniti non sono più disposti a essere il garante permanente della sicurezza del continente. Washington spinge per uno “shift” di risorse militari dall’Europa all’Indo-Pacifico e all’emisfero occidentale, come dimostra l’ordine di ritiro di circa 800 soldati statunitensi dalla Romania, con redistribuzione verso teatri considerati più rilevanti nella competizione con la Cina. Come già fatto negli scorsi mesi, l’amministrazione Trump lega esplicitamente difesa e politica economica, minacciando dazi e misure punitive contro i Paesi europei che mantengono regole ritenute ostili agli interessi delle big tech e dell’industria Usa, dal Digital Services Act alle nuove norme sull’intelligenza artificiale.

​Un ricatto che, almeno a parole, Bruxelles non è disposta ad subire in silenzio. Per approfondire:

Mentre (oggi) Donald Trump rincara la dose attaccando i “deboli e confusi” leader europei, l’Europa cerca una risposta concreta alla nuova strategia Usa.

Le reazioni europee, Costa: “Non possiamo accettare le interferenze di Washington”

A Bruxelles e nelle capitali europee le parole di Trump sono state interpretate con una doppia valenza: disimpegno militare e interferenza politica. In più punti la strategia parla di “coltivare la resistenza alla traiettoria attuale dell’Europa dall’interno delle nazioni europee”, una formula che autorizza di fatto il sostegno americano ai partiti nazional-conservatori ed euroscettici.
Un riferimento che non è piaciuto al presidente del Consiglio europeo: “gli alleati non minacciano di interferire nella vita politica interna degli alleati, la rispettano”, ha risposto Antonio Costa durante la conferenza annuale del Delors Institute, sottolineando che gli Usa e l’Ue ormai “non condividono la stessa visione dell’ordine internazionale“. Parole risolute che evidenziano la frattura culturale e geopolitica aperta dalla National Security Strategy 2025.

Ursula von der Leyen aveva già anticipato il cambio di clima definendo, nel suo discorso sullo stato dell’Unione 2025, “l’Europa in guerra” non solo per l’aggressione russa, ma per una competizione sistemica che tocca tecnologie, energia, difesa. L’asse franco-tedesco insiste sulla necessità di un’autonomia strategica europea, ma gli Stati dell’Est, più esposti alla minaccia russa e privi di capacità nucleari, guardano ancora a Washington come ultima ancora di salvezza, creando un’ulteriore faglia all’interno dell’Ue, già gravemente frammentata.

Mosca “allineata” alla dottrina Trump

Se l’Europa si indigna, la Russia applaude. Il Cremlino ha definito la strategia americana “in larga misura allineata” con la visione russa dell’ordine internazionale, apprezzando in particolare il passaggio dalla narrazione di “potenza revisionista” a quella di attore con cui ristabilire una qualche “stabilità strategica”. Nel documento scompaiono i toni di contrapposizione esistenziale che caratterizzavano la prima amministrazione Trump nel 2017, sostituiti da un approccio più funzionale, centrato sulla gestione del rischio nucleare e sulla stabilizzazione dei mercati energetici europei.

Anche il dossier sull’Ucraina viene inquadrato in chiave diversa: la priorità indicata non è tanto contenere l’espansione russa, quanto ottenere rapidamente una “risoluzione” del conflitto per evitare shock prolungati all’economia. Questa impostazione è coerente con le pressioni esercitate da mesi su Kiev per accettare concessioni territoriali sul Donbass e rinunciare alla prospettiva di ingresso nella Nato in cambio di garanzie di sicurezza poco definite, una linea che molti leader europei hanno giudicato rischiosa sia sul piano politico che su quello militare.

Il “corollario Trump” alla dottrina Monroe

Il presidente americano rivendica apertamente un “corollario Trump” che aggiorna il principio ottocentesco “l’America agli americani”: nessuna potenza esterna deve poter proiettare forze, tecnologie o capitali critici nell’emisfero occidentale senza il consenso di Washington. Ciò riguarda non solo basi militari e porti strategici, ma anche infrastrutture digitali, corridoi energetici, catene del valore per semiconduttori e materie prime.

Un esempio concreto è il braccio di ferro con il Messico sulle acque di confine: la Casa Bianca ha legato il rispetto dei trattati idrici a minacce di dazi generalizzati, trasformando una disputa su una risorsa condivisa in un chiaro esempio della dottrina “Monroe 2.0”. Allo stesso tempo, l’amministrazione spinge i governi latinoamericani a ridurre la dipendenza da capitali e tecnologie cinesi in settori chiave (5G, energia, porti), proponendo pacchetti alternativi guidati da aziende statunitensi. La logica è chiara: gli Stati Uniti d’America sono la priorità assoluta, e ogni presenza cinese o russa nell’apparato economico e produttivo diventa un problema di sicurezza nazionale.

L’Indo-Pacifico come teatro centrale

In questo contesto, l’Indo-Pacifico diventa il centro della proiezione Usa. La strategia definisce la regione “il campo di battaglia geopolitico ed economico centrale del XXI secolo”, dove si decide l’equilibrio tra Stati Uniti e Cina. L’obiettivo non è tanto un “contenimento ideologico” di Pechino, quanto un riequilibrio delle relazioni economiche e tecnologiche, attraverso controlli alle esportazioni, riorganizzazione delle catene del valore e un più stretto coordinamento con Giappone, Corea del Sud, Australia e India.

Taiwan, da anni sull’orlo del conflitto con Pechino, viene indicata come nodo strategico, in quanto epicentro della produzione globale di semiconduttori avanzati e tassello chiave nel controllo della First Island Chain, la “prima catena di isole” che può fare da scudo al potere della Cina.

Il Mar Cinese Meridionale viene inquadrato come corridoio vitale per il commercio e l’energia, la cui militarizzazione da parte di Pechino richiede una risposta di lungo periodo. Per questo la strategia incoraggia gli alleati indo-pacifici ad aumentare la spesa per la difesa e l’interoperabilità con gli Usa, mentre Washington chiede al tempo stesso a europei e asiatici di assumersi una quota sempre maggiore dei costi militari.

Le radici politiche della strategia

La National Security Strategy 2025 non è solo la traduzione istituzionale delle promesse della campagna 2024, bensì una sintesi delle critiche mosse alla politica estera americana degli ultimi trent’anni. Nel testo si sostiene che, dopo il 1989, gli Usa abbiano cercato di mantenere una sorta di “dominio globale permanente”, accumulando impegni militari e politici difficili da sostenere a fronte di alleati disposti a scaricare su Washington il peso della propria sicurezza.

La novità sta nell’intreccio tra questo “realismo selettivo” e la dimensione identitaria. L’Europa non viene criticata soltanto perché spende poco in difesa, ma in quanto portatrice di una visione “transnazionale” della politica incompatibile con il sovranismo americano promosso da Trump e dal suo vice JD Vance. Il documento riflette così la convergenza tra l’agenda di riaffermazione nazionale (America First), l’ossessione culturale per la “crisi dell’Occidente” e l’eredità di chi spinge da anni per ridurre il perimetro degli impegni permanenti presi dall’America nell’orbe terracqueo.​

Un bivio strategico per l’Europa

La nuova strategia Usa per la sicurezza nazionale spinge l’Ue in una doppia direzione.

Da un lato, i Ventisette (messi alle strette da Washington) accelereranno sul riarmo e costruiranno un pilastro europeo credibile nella Nato, sfruttando strumenti come ReArm Europe e rafforzando la cooperazione industriale e tecnologica in ambito difesa. Dall’altro, l’Ue dovrà gestire un rapporto sempre più conflittuale con Washington su commercio digitale, regole ambientali e governance dell’intelligenza artificiale, dove la pressione statunitense si somma alla competizione con la Cina e altre potenze emergenti.

Nel breve periodo, l’ombrello Usa non scompare, ma diventa condizionato, selettivo, reversibile. Nel medio termine, molto dipenderà dalla capacità europea di trasformare la spinta al riarmo in vera autonomia strategica, senza scivolare in una frammentazione tra Est e Ovest e senza lasciare vuoti di sicurezza che altri – dalla Russia alla Cina – potrebbero riempire.

In gioco non è soltanto il ruolo dell’Europa nel mondo, ma la possibilità per il continente di restare soggetto geopolitico e non solo oggetto di competizione tra le grandi potenze globali.

Politics

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

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