Il Consiglio dell’Ue e il Parlamento europeo hanno trovato un’intesa provvisoria che ridimensiona in modo sostanziale l’impianto normativo sulla sostenibilità d’impresa. Le due direttive cardine – Corporate Sustainability Reporting Directive (Csrd) e Corporate Sustainability Due Diligence Directive (Csddd/Cs3d) – vengono drasticamente ristrette: soglie più alte, obblighi ridotti, responsabilità alleggerite, calendario spostato in avanti fino al 2029. Circa l’80-85% delle aziende inizialmente previste per la Csrd viene di fatto espulso dal campo di applicazione, mentre i piani di transizione climatica obbligatori vengono cancellati dal testo.
L’accordo provvisorio raggiunto nel trilogo tra Consiglio e Parlamento, su impulso della presidenza danese, viene presentato come una “rivoluzione di semplificazione”, in linea con l’appello dei leader europei di ottobre 2024 e con la Budapest Declaration, che chiedeva un taglio deciso agli oneri regolatori per le imprese. Ma dietro la formula della semplificazione c’è un riequilibrio sostanziale tra ambizione climatica e protezione della competitività industriale, maturato sotto la pressione combinata di governi chiave, grandi gruppi energetici e partner commerciali esterni come Stati Uniti e Qatar.
Il risultato è un compromesso che rassicura parte del mondo produttivo, ma riduce sensibilmente la portata regolatoria del “Green Deal per le imprese” pensato nella scorsa legislatura. Le direttive restano in piedi, ma diventano strumenti mirati per poche migliaia di grandi gruppi, mentre il resto dell’economia europea torna a muoversi in uno spazio molto più ampio di autoregolazione.
Dall’agenda Draghi–Letta all’Omnibus I
La cornice politica dell’intesa si definisce nei mesi precedenti, quando il Consiglio europeo sollecita un intervento sui costi amministrativi che pesano sulle imprese e chiede di ricalibrare l’intero impianto regolatorio in funzione della competitività. I rapporti firmati da Enrico Letta (“Much more than a market”) e Mario Draghi (“The future of European competitiveness”) hanno spinto i leader a chiedere una “semplificazione rivoluzionaria” delle norme Ue, soprattutto in materia di sostenibilità e investimenti.
La Commissione ha risposto il 26 febbraio 2025 con due pacchetti Omnibus, uno dedicato alla sostenibilità e uno agli investimenti, da trattare come corsia preferenziale nell’agenda legislativa dell’anno. In parallelo è stato varato il meccanismo “Stop-the-clock”, che ha già rinviato di due anni l’entrata in applicazione degli obblighi Csrd per le grandi imprese non ancora partite con la rendicontazione e per le Pmi quotate, oltre a spostare in avanti di un anno la prima fase di attuazione della Csddd.
L’accordo del 9 dicembre sul pacchetto “Omnibus I” è il tassello operativo di questa strategia. Il Consiglio parla di un’intesa che “semplifica le direttive sulla rendicontazione di sostenibilità e sulla dovuta diligenza riducendo l’onere di rendicontazione e limitando l’effetto a cascata degli obblighi sulle imprese più piccole”. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen commenta favorevolmente il compromesso sottolineando risparmi stimati fino a 4,5 miliardi di euro di oneri amministrativi, ribadendo che si tratta di “rendere più semplice fare impresa in Europa, rimanendo fedeli ai nostri valori”.
La presidenza danese rivendica il cambio di passo. Marie Bjerre, ministro per gli Affari europei, dichiara: “Oggi abbiamo mantenuto la promessa di rimuovere oneri e regole e rafforzare la competitività dell’Ue. È un passo importante verso il nostro obiettivo comune di creare un ambiente imprenditoriale più favorevole”. Morten Bødskov, ministro danese per l’Industria, insiste sul legame con gli investimenti green: “Per anni, le imprese europee hanno affrontato ondate di burocrazia. Questo ha rallentato gli investimenti verdi e indebolito la nostra competitività. Ora stiamo facendo un passo grande e importante nella direzione giusta”.
Dietro la retorica della semplificazione c’è però una scelta precisa: escludere dalla regolazione la quasi totalità delle imprese inizialmente coinvolte e concentrare gli obblighi sui gruppi di dimensioni maggiori. Le stime avanzate nel corso dell’iter legislativo indicano che la revisione riduce fino a circa il 90% le aziende soggette alla Csrd e taglia in modo analogo la platea prevista dalla Csddd, trasformando direttive concepite per incidere sull’intero sistema produttivo in un regime applicabile soltanto a un numero ristretto di grandi operatori.
La Csrd si restringe
Sul fronte dell’informativa aziendale, la modifica è sostanziale. La Csrd, che avrebbe dovuto estendere la rendicontazione di sostenibilità a tutte le grandi imprese (oltre 250 dipendenti) e a un’ampia fascia di società quotate, viene ora circoscritta a imprese con almeno 1.000 dipendenti e un fatturato netto superiore a 450 milioni di euro. Per le società extra-Ue, il requisito è un fatturato di almeno 450 milioni generato all’interno del mercato europeo.
La combinazione di soglia occupazionale e soglia di fatturato esclude una parte consistente del mid-market industriale, inclusi operatori con forte impronta internazionale e impatti ambientali rilevanti. Il Consiglio ha inoltre ottenuto l’esenzione per le financial holding, eliminando dall’ambito della direttiva le capogruppo puramente partecipative del settore finanziario, e ha introdotto una deroga transitoria per le cosiddette “wave one companies”: le imprese che hanno iniziato a rendicontare dal bilancio 2024 potranno uscire temporaneamente dal perimetro per gli esercizi 2025 e 2026.
Dal lato politico, da un lato, si risponde alle critiche delle imprese su standard europei di rendicontazione di sostenibilità troppo dettagliati, sulla scarsità di dati lungo la filiera e sui costi di implementazione per i sistemi IT. Dall’altro, si segnala a investitori e mercati che l’Europa intende mantenere un quadro di riferimento obbligatorio per i gruppi più grandi, lasciando però maggiore spazio di manovra alle aziende di dimensioni intermedie. La presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola ha rivendicato che l’accordo “riduce la burocrazia e rende più facile per le imprese, le pmi e l’industria investire, crescere e creare posti di lavoro”, sottolineando l’intento di non soffocare il tessuto produttivo con obblighi di reporting considerati eccessivi.
Per gli investitori, la conseguenza immediata è la rarefazione del campo informativo obbligatorio. Le informazioni Esg standardizzate saranno disponibili per un numero molto limitato di emittenti, mentre una fetta ampia di società resterà coperta solo da disclosure volontarie, spesso eterogenee per perimetro e metriche. Studi recenti ricordano che la Csrd era stata pensata per fornire una base comparabile alla finanza sostenibile, integrando la Sustainable Finance Disclosure Regulation (Sfdr) e la tassonomia Ue. Con il nuovo perimetro, gli asset manager che vogliono costruire portafogli a basse emissioni o con attenzione ai diritti umani dovranno integrare di più strumenti proprietari di analisi e verifiche dirette.
La revisione include comunque una clausola di riesame che consentirà, in teoria, di valutare l’eventuale estensione futura dell’ambito di applicazione sia per la Csrd che per la Csddd. Ma l’esperienza recente mostra che ampliare nuovamente il raggio d’azione di una norma dopo averlo ridotto è politicamente più complesso che restringerlo in prima battuta. Nel frattempo, la riduzione degli obblighi di rendicontazione viene letta dal mondo industriale come un segnale di discontinuità rispetto alla stagione regolatoria più intensa del Green Deal.
Nuove soglie e requisiti più flessibili ridefiniscono la due diligence europea
Se sul reporting il ridimensionamento è vistoso, sulla due diligence lungo la catena del valore la trasformazione è ancora più marcata. La Csddd, che avrebbe dovuto obbligare le imprese europee sopra una certa soglia a identificare, prevenire e mitigare impatti negativi su diritti umani e ambiente lungo le proprie catene di attività, verrà applicata soltanto alle aziende con almeno 5.000 dipendenti e 1,5 miliardi di euro di fatturato netto, mentre per i gruppi extra-Ue varrà il criterio dei 1,5 miliardi di ricavi generati nel mercato europeo.
In termini pratici, gli obblighi di due diligence si concentreranno su poche migliaia di imprese; secondo diverse stime, la platea potenziale si riduce a circa 1.500 soggetti. La giustificazione ufficiale è che queste aziende hanno “la maggiore influenza sulla loro catena del valore” e sono “meglio attrezzate per assorbire i costi e gli oneri dei processi di dovuta diligenza”, come evidenziato dal testo del Consiglio.
La direttiva cambia anche struttura operativa. La proposta originaria limitava la fase di identificazione degli impatti alle operazioni proprie, alle controllate e ai partner commerciali diretti. L’intesa raggiunta nel trilogo rimuove questa limitazione, ma allo stesso tempo consente alle imprese di concentrare l’analisi sulle aree della catena di attività dove gli impatti negativi sono più probabili, evitando una mappatura esaustiva della filiera. Le aziende potranno basare gli sforzi su informazioni “ragionevolmente disponibili”, riducendo così la pressione documentale sui partner più piccoli.
Il passaggio più sensibile riguarda però il clima. L’obbligo di adottare piani di transizione climatica, con l’obiettivo di allineare i modelli di business all’Accordo di Parigi, è stato rimosso dalla direttiva “per fornire un significativo alleggerimento degli oneri”, come recita la formulazione del Consiglio. Si tratta di una concessione diretta alle pressioni dell’industria, in particolare delle compagnie energetiche, che in più occasioni avevano definito “schiacciante” l’impatto della combinazione tra obblighi di due diligence e piani di transizione obbligatori.
Sul piano giuridico, viene eliminato il regime armonizzato di responsabilità civile a livello Ue. Non ci sarà più l’obbligo per gli Stati membri di garantire che le norme sulla responsabilità si applichino in modo imperativo anche quando il diritto applicabile non è quello nazionale. Al suo posto viene inserita una clausola di revisione, che rimanda a una futura valutazione dell’eventuale necessità di un quadro armonizzato. Le sanzioni vengono fissate in un tetto massimo del 3% del fatturato netto mondiale dell’impresa, con la Commissione incaricata di emanare linee guida sull’applicazione.
Infine, il calendario viene spostato in avanti: la trasposizione della Csddd viene rinviata al 26 luglio 2028 e le imprese dovranno conformarsi alle nuove misure entro luglio 2029. Un differimento che offre spazio per riorganizzare processi interni e sistemi di controllo, ma che allontana il momento in cui diritti umani e impatti ambientali nelle catene globali del valore saranno effettivamente presidiate da obblighi giuridici uniformi a livello europeo.
Le implicazioni per il mercato Esg
L’accordo Omnibus I ridisegna la mappa degli interessi in gioco. I settori più alleggeriti sono quelli composti da medie e grandi imprese che superavano le soglie originarie, ma non raggiungono i nuovi livelli fissati. Un’ampia quota di imprese del manifatturiero, dell’automotive, della chimica, della logistica e di parte del comparto energetico che superavano le soglie originarie ma non raggiungono i nuovi livelli rischia di uscire dal radar della due diligence obbligatoria, mentre restano esposte soltanto le multinazionali di dimensione maggiore. Per molte aziende, soprattutto nei Paesi dove i margini sono compressi dall’aumento dei costi energetici, la riduzione degli obblighi viene letta come una vittoria delle associazioni imprenditoriali che, nell’ultimo anno, hanno intensificato il pressing su governi e istituzioni europee.
Le pressioni non sono arrivate solo dal fronte interno. Diversi partner commerciali dell’Unione, tra cui Stati Uniti e Qatar, hanno espresso a Bruxelles timori sulle implicazioni extraterritoriali della direttiva e sull’impatto dei piani di transizione climatica obbligatori, avvertendo che tali requisiti avrebbero potuto incidere sugli scambi energetici e sugli investimenti nel mercato europeo del gas naturale liquefatto. Il compromesso raggiunto (soglie molto elevate, eliminazione dei piani climatici, accantonamento della responsabilità civile armonizzata) recepisce buona parte di queste preoccupazioni.
Dal lato finanziario, il segnale al mercato Esg è complesso. L’Ue conserva un impianto regolatorio più strutturato rispetto ad altre aree del mondo: gli obblighi di rendicontazione e di due diligence restano vincolanti per le imprese più grandi, con un regime sanzionatorio definito. Tuttavia, l’indebolimento delle norme rende più difficile per gli investitori distinguere, sulla base di dati comparabili, tra strategie realmente orientate alla transizione e approcci meramente formali. Le valutazioni preliminari indicano che il ridimensionamento del perimetro potrà aumentare il ricorso a sistemi proprietari di analisi, spostando il peso del controllo dal quadro regolatorio al mercato.
Le organizzazioni attive nella tutela dei diritti e dell’ambiente hanno espresso forte preoccupazione, sostenendo che l’attenuazione degli obblighi riduce la capacità dell’Ue di incidere sugli impatti generati lungo le catene globali del valore. Il timore è che la combinazione tra soglie elevate e minore vincolatività dei requisiti climatici rallenti il percorso europeo verso gli obiettivi di decarbonizzazione e indebolisca il ruolo dell’Unione come riferimento internazionale nella regolazione della sostenibilità.
Per le imprese che restano nel perimetro Csrd/Csddd, lo scenario non diventa meno impegnativo. La platea ristretta accresce la visibilità delle performance di sostenibilità e concentra l’attenzione di investitori, osservatori e società civile su un gruppo limitato di soggetti. Allo stesso tempo, l’allungamento dei tempi di attuazione e l’ampliamento delle soglie creano uno spazio competitivo per chi vorrà andare oltre il minimo richiesto, utilizzando la trasparenza e strategie climatiche credibili come leva nei rapporti con il mercato dei capitali e con le catene globali di approvvigionamento. In assenza di un obbligo generalizzato, il divario tra conformità formale e trasformazione reale dipenderà sempre più dalle scelte strategiche delle imprese e dalle aspettative degli investitori.
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