17.7 C
Firenze
mercoledì 8 Ottobre 2025
Segnala a Zazoom - Blog Directory
spot_img

Distratti o geniali? La scuola italiana di fronte alla fine dello studente medio

La scuola italiana attraversa una fase di disorientamento che non dipende solo dalle risorse o dai programmi, ma da una trasformazione più profonda, che investe la natura stessa degli studenti.
Mai come oggi la distanza tra le capacità cognitive degli alunni appare ampia: da un lato, un numero crescente di ragazzi che faticano a concentrarsi, frammentano l’attenzione e dipendono dal telefono come prolungamento del sé; dall’altro, una minoranza sempre più visibile di studenti che apprendono con velocità, curiosità e autonomia, e che il sistema non sa come gestire.
Il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha colto entrambe le tendenze, parlando da un lato di “dipendenza comportamentale” che colpisce il 25% dei giovani e dall’altro salutando con favore l’approvazione al Senato del disegno di legge per il riconoscimento degli studenti ad alto potenziale cognitivo.

Due questioni apparentemente opposte che delineano un’unica crisi: la scuola è rimasta ancorata a un modello di studente medio, ma quello studente non esiste più.

La nuova alfabetizzazione dell’attenzione

Il divieto dei cellulari in classe non basta a proteggere la scuola da ciò che gli schermi hanno già trasformato. Anche quando restano nello zaino, i telefoni continuano a plasmare il modo in cui i ragazzi organizzano il pensiero, memorizzano e si concentrano. A confermarlo è il progetto ‘Eyes up’, promosso dall’Università di Milano-Bicocca e dall’Università di Brescia su un campione di oltre seimila studenti, secondo il quale chi apre un profilo social prima dei quattordici anni ottiene risultati mediamente inferiori nelle prove Invalsi di matematica e italiano. La correlazione non riguarda solo il tempo speso sui social, ma un diverso funzionamento cognitivo: la velocità con cui i contenuti digitali vengono consumati riduce la capacità di elaborazione profonda e la memoria di lavoro.

A questo quadro si aggiungono le evidenze raccolte dall’Istituto Superiore di Sanità nel rapporto “Dipendenze comportamentali nella Generazione Z”, dove si stima che circa un quarto degli adolescenti italiani mostri comportamenti compatibili con una dipendenza da smartphone o social media. Tra questi ragazzi, più del 70% riferisce difficoltà scolastiche e tensioni familiari, in un intreccio che collega il disagio digitale al benessere relazionale. Valditara ha definito la situazione “un problema educativo prima ancora che tecnologico”, sottolineando come la connessione continua interferisca con la costruzione dell’autonomia cognitiva.

La nuova forma di analfabetismo non riguarda la lettura, ma la concentrazione. Gli insegnanti descrivono classi sempre più frammentate, dove la soglia di attenzione si abbassa e la distrazione diventa il ritmo dominante; e mentre la scuola prova a difendere lo spazio dell’apprendimento, una parte del corpo docente guarda anche all’innovazione come leva di progetto.

Gli effetti collaterali dell’iperconnessione

Gli effetti dell’iperconnessione non si limitano al rendimento, ma producono effetti che si estendono oltre l’aula, incidendo sui ritmi biologici e sulle relazioni quotidiane. Gli studi del San Raffaele e della Società Italiana di Pediatria hanno individuato un nesso diretto tra l’uso prolungato dello smartphone nelle ore serali e la qualità del sonno: l’esposizione alla luce artificiale riduce la produzione di melatonina e altera i cicli circadiani, generando quello che i ricercatori definiscono jet lag digitale. Il risultato è una stanchezza costante, che indebolisce la memoria e la motivazione, mentre la giornata scolastica inizia con una fatica già accumulata.

Anche la sfera familiare risente della connessione permanente. L’indagine dell’Iss mostra che la quota di studenti con rapporti conflittuali con i genitori cresce in modo proporzionale al tempo trascorso online. Le famiglie faticano a fissare regole e tempi di disconnessione, soprattutto tra gli 11 e i 13 anni, quando il bisogno di appartenenza digitale diventa prioritario rispetto a qualsiasi limite imposto dall’adulto. Nella scuola, questo si traduce in un disagio meno visibile ma più profondo: un’attenzione dispersa che si accompagna a un senso di isolamento, anche all’interno del gruppo classe.

“È un’emergenza educativa”, ha detto Valditara, “perché non è in discussione l’uso del digitale come strumento, ma la sua invasività nei processi di crescita”. La generazione cresciuta nella connessione permanente vive una sovrapposizione continua tra dimensione personale e collettiva, tra reale e digitale, e fatica a stabilire confini. La sfida è distinguere la tecnologia come mezzo da quella come ambiente: nel secondo caso, la scuola rischia di perdere il controllo sul proprio spazio cognitivo.

Studenti italiani sotto pressione e stressati

Il Ddl sui talenti

Sul versante opposto della crisi, il Parlamento ha approvato in prima lettura il disegno di legge “Disposizioni in favore degli alunni e degli studenti ad alto potenziale cognitivo e delega al Governo per il riconoscimento dei medesimi”. Il provvedimento, fortemente sostenuto dal ministro Valditara, introduce per la prima volta un quadro normativo nazionale per l’identificazione e il sostegno di quegli studenti che manifestano capacità cognitive superiori alla media, ma che spesso non trovano nel sistema scolastico stimoli adeguati.

Il testo prevede una delega al Governo per l’adozione di decreti legislativi che definiscano criteri scientifici, strumenti di valutazione e modalità di personalizzazione dei percorsi formativi. È istituito inoltre un Comitato tecnico-scientifico congiunto tra il Ministero dell’Istruzione e il Ministero della Salute, chiamato a elaborare protocolli di riconoscimento e linee guida operative, insieme a un Piano triennale di formazione dei docenti.

“Con questo provvedimento — ha spiegato Valditara — si compie un passo decisivo verso una scuola capace di valorizzare i diversi talenti dei giovani. Nessuno deve esser lasciato indietro, ma nessuno deve essere limitato rispetto al proprio potenziale”.

La legge si colloca nel solco della Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 1994 e rappresenta un tentativo di allineare l’Italia alle esperienze di altri Paesi europei che da tempo prevedono percorsi personalizzati per gli studenti ad alto potenziale. Fino a oggi, nel nostro Paese, il tema è stato affrontato in modo disomogeneo: progetti locali, iniziative di singole scuole, diagnosi affidate a professionisti privati.

Gli esperti stimano che tra il 3% e il 5% degli alunni italiani rientri nella categoria dell’alto potenziale cognitivo, ma solo una parte minima riceve una diagnosi o un supporto. Molti finiscono per adattarsi al ribasso, altri per isolarsi. La legge mira a intercettare queste situazioni, offrendo percorsi di studio flessibili e una formazione capace di individuare i segnali precoci. In Italia il tema è stato spesso frainteso, confuso con l’idea di élite o di privilegio. In realtà, il talento ignorato produce lo stesso spreco sociale del disagio non trattato: un capitale intellettuale disperso, che la scuola dovrebbe invece trattenere e orientare.

Tra merito e inclusione

La dipendenza digitale e il talento non riconosciuto sono le due estremità di una stessa curva. La scuola italiana è nata per garantire uguaglianza di accesso e omogeneità di risultati, ma si trova oggi di fronte a una popolazione studentesca radicalmente eterogenea, dove le differenze cognitive, culturali e sociali si moltiplicano. L’idea di un modello unico di apprendimento, valido per tutti, si scontra con la realtà di una generazione che apprende per vie multiple, con tempi e modalità non lineari.

La “personalizzazione della didattica”, richiamata dal ministro come chiave di volta delle nuove politiche educative, rappresenta una prospettiva obbligata ma ancora lontana dall’essere praticata. Personalizzare non significa semplicemente differenziare i compiti, ma progettare percorsi che tengano conto della varietà dei profili cognitivi e relazionali. Le tecnologie digitali possono offrire un supporto — piattaforme adattive, intelligenza artificiale educativa, tutoring personalizzato — ma senza una regia pedagogica rischiano di amplificare le disuguaglianze invece di ridurle.

La sfida si intreccia con quella demografica. L’Italia ha meno studenti rispetto al passato, ma una complessità interna molto più elevata: background familiari eterogenei, livelli di competenza diseguali, disturbi dell’apprendimento, fragilità emotive, uso problematico dei social, plusdotazione. La riduzione numerica delle classi non semplifica la gestione didattica, ma la rende più sofisticata, perché ogni studente rappresenta un mondo a sé.

In questo contesto, la scuola deve ridefinire la propria funzione: non più solo trasmettere conoscenze, ma saperle modulare, riconoscere le differenze senza trasformarle in gerarchie, evitare che la dispersione cognitiva diventi dispersione sociale. L’obiettivo, come ha detto Valditara, è “valorizzare i diversi talenti dei giovani”, ma per farlo occorre un sistema capace di trattenere chi si perde e di accompagnare chi vola.

Giovani

manuela.cirinna@adnkronos.com (Manuela Cirinnà)

© Riproduzione riservata

spot_img

Notizie correlate

Firenze
cielo sereno
17.7 ° C
19.5 °
16.5 °
83 %
0.5kmh
2 %
Mer
23 °
Gio
24 °
Ven
25 °
Sab
26 °
Dom
26 °

Ultimi articoli

SEGUICI SUI SOCIAL

VIDEO NEWS

Video news